Provate a chiedere a un francese come sia la cucina europea. Fate lo stesso poi con uno svedese e poi con un italiano. Le risposte saranno tutte diverse, non ci sarà quasi niente di comune. Forse, potreste trovare alcune similitudini tra la Grecia, il nostro Paese, magari la Croazia o la Spagna, ma per il resto sarebbe davvero complicato trovate dei punti di incontro generali per un continente che parla lingue diverse, mangia cibi diversi e vive di culture diverse. L’Europa ha una superficie di 10.530.000 chilometri quadrati, per l’Africa bisogna prendere questo numero e moltiplicarlo per tre. Ora, è facile rendersi subito conto che chiedere a un africano cosa si mangia in Africa, sia una domanda ancora più assurda. E ancora più assurdo è pensare di conoscere la cucina di un intero continente solo per sentito dire o per pigrizia culturale. Ragioniamoci un secondo: cosa si mangia gli africani? Se è capitato qualche volta di porci questa domanda, probabilmente la risposta sarà stata limitata ad alcuni ingredienti, che mescolati tra di loro danno vita a poche ricette, quasi sempre uguali tra loro.
La riflessione è scaturita da un reel pubblicato su Instagram da Tommy Kuti, giovane italiano dalle origini nigeriane, che di mestiere fa il cantante, ma insieme ad alcuni amici gestisce un negozio di generi alimentari con prodotti provenienti proprio dall’Africa. Tommy ha deciso in qualche modo di fare divulgazione sulle sue radici culturali gastronomiche, proprio per sfatare quei miti, di cui qui in Italia siamo pieni.
«In Africa non si mangia solo riso e pollo» scrive su un cartello il simpatico Tommy. Ed è vero: c’è un universo in mezzo, anzi, un continente. «L’Africa è vastissima e le differenze tra un Paese e l’altro sono enormi. Se, ad esempio, in Nigeria mangiamo tanto piccante, in altri paesi è l’opposto. Non mi sento di trovare un termine per definire la cucina africana, perché all’interno, ad esempio, del mio Paese ci sono cinque culture principali, ma in realtà ci sono centinaia di gruppi etno-linguistici, con le loro proprie tradizioni, usi e costumi. E ognuno di questi gruppi cucina i propri cibi» racconta Tommy. Differenze che poi magari si incontrano in un punto, quasi ci fosse una linea di raccordo che in qualche modo vuole unire i puntini. «Alcuni piatti sono quasi un po’ universali». Le ricette sono simili, ma si parte da ingredienti diversi, che poi sono quelli del territorio di appartenenza. Come, ad esempio, il Jollof rice, popolare in tutta l’Africa subsahariana, comune in Ghana, Senegal, Nigeria e originaria del gruppo etnico wolof: si tratta di una ricetta a base di riso, verdure e spezie, che cambia proprio a seconda del luogo in cui ci si ritrova. Ognuno ha la propria versione ed è superfluo dire che è sempre migliore delle altre.
Insomma, paese che vai, orgoglio gastronomico che trovi: in questo non siamo poi così diversi, pensiamo sempre tutti e comunque che le ricette della nostra nonna, quelle di famiglia insomma, siano le più buone, vere e originali. «Una volta chiacchieravo con una ragazza nera americana, che mi raccontava di un piatto della sua famiglia, che discendeva ovviamente dagli schiavi: mi sono reso conto che era lo stesso piatto, con delle variazioni, ma era esattamente lui». Il bello del cibo, eccolo: il suo viaggio, il suo migrare, il suo cambiare in base ai luoghi, alle persone e al tempo. E non è una questione culturale, è proprio insito nell’essenza stessa del mangiare.
La storia africana, è vero, è molto diversa da quella del mondo occidentale. In Europa, in generale, viviamo in un contesto di globalizzazione totale, anche da un punto di vista gastronomico. In Africa le distanze sono immense, così come lo sono a volte le sfumature culturali («In Eritrea si mangia carne cruda, da noi in Nigeria sarebbe impensabile»). Ci sono luoghi che sono totalmente disconnessi dal mondo occidentale, altri che invece ne inseguono usi e costumi.
Di profondamente diverso, ma sempre legato al nostro modo di vivere, c’è una sovrabbondanza alimentare di cui noi siamo schiavi e complici. Aspetto che nei Paesi africani non esiste, anzi, spesso è vero il contrario. Eppure anche noi europei siamo, in qualche modo, nati così, in epoche in cui il sostentamento era dato per lo più dall’agricoltura e la carne era qualcosa da mangiare solo ogni tanto. «In Africa ci si nutre di tanti ortaggi e carboidrati. Il pollo (eccolo il pollo del cartello ironico su Instagram) lo mangiamo, ma è diverso da quello che consumiamo in Europa: è più piccolo, ma certamente più gustoso» sorride Tommy. E noi gli crediamo, mannaggia all’industrializzazione.
In qualche modo l’Occidente contribuisce anche all’alimentazione degli altri Paesi. Tommy, infatti, ci ricorda che «il cocco viene più esportato che consumato in Africa». Volente o nolente, anche oggi ci si ritrova a mettere becco nelle culture altrui, che modifichiamo in base ai nostri bisogni o alle nostre mode alimentari. E se non siamo così informati sulla cultura gastronomica africana è anche per una questione, potremmo dire, politica. L’Italia, nonostante sia una delle mete principali delle rotte migratorie, ha degli ascensori sociali poco funzionanti e, a differenza di altre popolazioni, quelle africane non sono ancora così forti economicamente e inserite nel tessuto demografico: i ristoranti africani ci sono, specie nel nord della penisola, ma non sono ancora numerosi come quelli, ad esempio, orientali. Eppure le cose stanno cambiando, soprattutto nel resto dell’Europa. I 54 stati africani stanno facendo capolino con la loro identità gastronomica nelle cucine stellate e c’è un bel fermento in tutte quelle capitali che sanno spingersi oltre con curiosità e voglia di contaminazione. Il futuro sarà lo stesso anche per l’Italia? Noi ce lo auguriamo e non vediamo l’ora.