Ci sono due attimi illuminanti, in “Diane Von Fürstenberg – Woman in charge”. Al primo, che è proprio all’inizio, ci arriviamo dopo. Il secondo è quando la regista chiede a DVF se può leggerle un passaggio d’una storia di copertina che le dedicò il New York Magazine negli anni Settanta. Lei dice «puoi fare quello che vuoi, sei la regista», poi si volta verso una telecamera che fino a quel momento non sapevamo ci fosse, perché nonostante il documentario sia già al trentaduesimo minuto non abbiamo mai visto una sua inquadratura da quel lato (e mai più ne vedremo una), e dice al cameraman, col sorriso tranquillo delle donne che non devono dimostrare d’essere di potere: sei proprio sicuro di volere quell’angolazione?
Prima ancora di vedere il film, mi era già chiaro chi comandasse tra Diane e Sharmeen Obaid-Chinoy, nominalmente regista di questo documentario biografico. L’avevo capito guardandole sull’Instagram di DVF, in macchina, credo stessero andando alla première, e Diane chiedeva quale fosse il messaggio in questo film, lei che fa sempre film coi messaggi, e la tapina rispondeva che il messaggio era «vivi la vita come vuoi, in un tempo in cui a tutte viene detto come vivere». Ma a chi? Ma dove? Viviamo nell’epoca più priva di regole di sempre, più sestessista di sempre, più senza canoni e gerarchie di sempre: ma chi è che dice a qualcuno come vivere?
Ma che questa sia una puttanata a Sharmeen non è riuscita farglielo capire Diane, figuriamoci se posso riuscirci io. Ci prova, Diane, eh, a estirpare i tic del presente dalla pavloviana regista quarantacinquenne.
Dice che certo che all’inizio gli uomini ci provavano pesantemente, «C’è sempre uno che vuole chiudersi con te in qualche stanza, è parte della vita, lo prendi a calci», ma quella – figlia del secolo vittimista – vuole farle dire disagi e ferite e traumi, e DVF niente, «non concederei mai a qualcuno il credito d’avermi messa a disagio», e insomma dev’essere terribile girare un intero film senza capire che film stai girando.
Nel momento in cui scrivo questo articolo, il documentario è su Disney da due giorni, e l’Instagram di DVF non somiglia a quelli di chi ha un prodotto fresco fresco da promuovere. Ha fatto il suo paio di video per le première, ora torniamo alla sua vita da Ragazza Ricca.
La foto più recente che ha pubblicato è quella di una ragazza che lavora con lei, fotografata mentre rifà la posa del quadro alle sue spalle, e il quadro è un ritratto di DVF realizzato da Andy Warhol. Valore di mercato: non lo vogliamo sapere, non ce lo possiamo permettere.
Poi ci sono molte foto in barca a vela (se devo dar retta a Instagram, DVF in questo momento è a Ibiza), e insomma tutto, in ciò che DVF sceglie di comunicare al mondo, dice la cosa più lunare che si possa dire in questo secolo: io non sono una di voi.
Che DVF non sia una di noi lo sappiamo da sempre, da quando la vediamo sui giornali (cioè da sempre), da quando non ha mai smesso di sembrarci un’aristocratica da pagine mondane pur essendo a tutti gli effetti un’imprenditrice di successo: da sempre.
DVF sarà pure quella che si è inventata quella vestaglietta chiamata wrap dress (non mi do pace: fa dei vestiti bellissimi, e stanno sempre tutti a parlare di quella vestaglietta che sembra uscita dall’armadio di Sophia Loren in “Una giornata particolare”), ma è, sempre e innanzitutto, una Ragazza Ricca.
Lo è anche quando descrive la sé con la valigetta di vestiti che va da Diana Vreeland e ne è terribilmente intimidita. (In un vecchio filmato, la Vreeland dice «era arrivata col campionario, aveva un prodotto, non era una ragazza con un sogno», e a me viene in mente Mark Zuckerberg che dice che una riga di codice vince sempre su un’idea: date retta a Vreeland e Zuckerberg, invece di perder tempo nelle facoltà umanistiche).
Lo è anche quando si descrive, all’inizio del suo frequentare Egon Von Fürstenberg, come «una piccoloborghese ebrea infiltrata nell’aristocrazia più ricca». Le miti piccoloborghesi mica diventano quadri di Warhol e stiliste leggendarie, pezzi grossi della cultura popolare e mogli di alcuni dei più interessanti omosessuali del Novecento. Barry Diller racconta che la prima volta che la incontrò lei lo guardò «come fossi pellicola trasparente», lui disse a sé stesso che non la voleva mai più vedere ed è passato un secolo e guardali. Sul muro d’un ufficio di Diane c’è una scritta: le donne che si comportano bene raramente fanno la storia.
DVF instagramma il suo bravo reel su di lei che si prepara per andare alla première del documentario, e alla fine sceglie un completo stupendo che io non vedevo l’ora di comprare, ma sul suo sito non si trova, sarà una collezione vecchia o una che deve ancora uscire, non si sa, ma insomma Elisabetta Franchi, saldamente legata alla sua natura di povera che ha fatto i soldi, non ci lascerebbe mai senza un link di quel che indossa. Diane sì.
«Dipende tutto dai capelli: tutte in Belgio hanno capelli lisci e biondi, io avevo i capelli mori e ricci». Diane dice che l’ha temprata quello, perché come tutte le Ragazze Ricche sa che esiste un dovere della leggerezza, e che non bisogna far pesare la madre uscita da Auschwitz di venti chili; madre che, quando lei era piccola, la chiudeva in un armadio, «oggi andrebbe in galera», perché così avrebbe smesso d’avere paura del buio, «voleva che fossi preparata se mi fosse capitato quel che era capitato a lei».
I tempi difficili fanno le persone forti, i tempi facili fanno noialtri mollaccioni, col dito pronto a commentare «ah quindi stai dicendo che ci rivorrebbero i campi di concentramento» (escludo che DVF abbia mai letto un commento, le Ragazze Ricche non fanno certi errori).
«Io non credo di avere mai avuto una vocazione per la moda: avevo una vocazione per essere la donna a capo di qualcosa, avevo una vocazione per la libertà». Dice DVF che è diventata la donna che voleva quando si è separata e improvvisamente era a capo di tutto: del suo lavoro, della sua famiglia, della sua vita.
Dice anche molte altre cose che vi consiglio di sentire da lei. Quella volta che s’inventò il wrap dress perché faceva degli scaldacuore e la figlia di Nixon, in tv a difendere il padre, ne indossava uno e le venne l’idea d’allungare lo scaldacuore a vestito. Quella volta che si fece fotografare per lanciare il vestito, e c’era questo cubo bianco troppo grande su cui era seduta per la foto, bisognava scriverci qualcosa, e ci scrisse «Sèntiti una donna, indossa un abito», ed è incredibile che differenza possano fare i cinquant’anni trascorsi tra il «sèntiti qualcosa» di DVF e quello di Chiara Ferragni (oggi peraltro DVF per quello slogan verrebbe come minimo considerata sessista, e allora io in pantaloni non sono donnaaaaa).
Ma la cosa più importante DVF la fa all’inizio. Solleva la camicia da notte che ha addosso, mette un piede nel lavandino, si solleva e ci si siede dentro, per truccarsi più vicina allo specchio. Una vita che penso a come siano concepiti male gli specchi dietro i lavandini, sei troppo lontana, non ci vedi, e mai mai mai avevo pensato alla soluzione: sedersi nel lavandino. In fondo era quello il wrap dress, era quello il talento della Ragazza Ricca che era tale pure prima di diventarlo: farsi venire in mente soluzioni ovvie cui non aveva ancora pensato nessuno.