«Questo è un ruolo impegnativo in un momento difficile […] Davanti a noi ci sono importanti sfide, alcune note e altre mai affrontate, ma le nostre democrazie devono continuare a far fronte a ogni avversità […] Tali sfide rendono evidente il motivo per cui abbiamo bisogno della Nato». Se non fosse per i successivi riferimenti all’andamento delle trattative per un cessate il fuoco in Ucraina, all’annuncio della fine dell’Operazione International Security Assistance Force (Isaf) in Afghanistan e alle azioni contro lo Stato Islamico, il primo discorso dell’allora neo segretario dell’Alleanza sarebbe in larga parte attuale anche oggi.
Politico di lungo corso, Stoltenberg arrivò a Bruxelles con un considerevole bagaglio di esperienze professionali svolte in patria. Già attivo nella sezione giovanile partito laburista norvegese, era stato parlamentare per poco più di vent’anni tra il 1991 e il 2014, assumendo varie volte la carica di ministro: prima all’industria e all’energia, successivamente alle finanze. Già primo ministro dello stato scandivano per un breve periodo tra il 2000 e il 2000, ha ricoperto successivamente la stessa carica senza soluzioni di continuità dal 2005 al 2013, prima di svolgere un anno come inviato speciale delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico.
Ripercorrendo quanto accaduto nell’ultimo decennio, quelle parole pronunciate il 1 ottobre 2014 nel brusio generale dei giornalisti desiderosi di intervistare il nuovo vertice dell’Alleanza sono state profetiche. Sebbene il nuovo segretario non avesse assunto il proprio incarico in un contesto di sicurezza transatlantico idilliaco – ma caratterizzato dalla diffusa stanchezza per l’impegno decennale in Afghanistan, dalle onde lunghe dell’intervento alleato in Libia e dalla nuova minaccia russa palesatasi plasticamente con l’annessione della Crimea, così come dalla nuova ondata di attacchi terroristici verificatisi a partire dal 2015 – Stoltenberg si è ritrovato a capitanare un galeone atlantico non al massimo delle sue potenzialità, spesso depauperato delle risorse necessarie e dotato di un equipaggio tutt’altro che coeso.
In quel periodo l’Alleanza fosse oggetto di profonde critiche da entrambe le sponde dell’Oceano. Alle costanti invettive dell’allora presidente statunitense Donald Trump contro gli alleati europei – arrivate a mettere in discussione anche l’architrave dell’Alleanza, ovvero l’articolo 5 – si aggiunsero le stoccate del presidente della Repubblica Emmanuel Macron. A poco più di un mese dal vertice dei capi di Stato e di governo Nato di Londra per le celebrazioni del settantesimo anniversario dell’Alleanza – ai microfoni del The Economist – Macron definì la compagine atlantica in una condizione di morte cerebrale.
È in questo clima che si deve inserire la decisione degli stati membri di rinnovare prima il mandato di Stoltenberg fino al settembre 2022, poi di incaricare l’ex primo ministro norvegese di guidare un ampio programma di riflessione atto a valutare le modalità attraverso cui rinsaldare la dimensione politica dell’Alleanza per il futuro. Il progetto, concretizzatosi nel documento Nato2030: United for a New Era, poneva l’accento su un’ampia varietà di temi: dalla necessità di sviluppare un nuovo concetto strategico alleato – approvato poi nel giugno 2022 – all’esigenza di porre maggiore attenzione all’azione cinese, alle nuove tecnologie emergenti e al cambiamento climatico, solo per citarne alcune. Degna di nota, inoltre, l’inclusione nel progetto della prospettiva generazionale, presentata compiutamente da quattordici giovani esperti designati a margine del Nato 2030 Youth Summit, tenutosi nella città tedesca di Monaco nel novembre 2020. Un anno fondamentale per l’Alleanza, così come per il mondo intero.
Nell’aprile 2020, dopo decenni passati a prepararsi per fronteggiare una potenziale invasione armata nel cuore dell’Europa, Stoltenberg affermò pubblicamente come rispondere a un nemico microscopico quale il Covid-19 avesse scalato le gerarchie dell’agenda alleata. «Non solo il virus ha minacciato le nostre società ed economie – si legge nell’edizione 2020 del report annuale redatto dal segretario generale – ma ha anche accresciuto le tensioni preesistenti». In quel contesto, le strutture dell’Organizzazione del Patto Atlantico misero a disposizione tutte le risorse disponibili per evitare che la crisi sanitaria si trasformasse in una crisi di sicurezza, come sottolineato ancora dal segretario a margine della Riga Conference tenutasi nella capitale lettone nel novembre dello stesso anno.
A poco più di due anni dallo scoppio della pandemia, l’ipotesi di un’invasione armata in Europa divenne realtà, aggiungendo un ulteriore tassello al già complesso quadro di sicurezza regionale. «La pace nel nostro continente è stata infranta. L’Europa assiste a una guerra che per scala e tipologia pensavamo fosse stata relegata alla storia». Queste le parole utilizzate da Stoltenberg a seguito della riunione straordinaria del Consiglio Atlantico del 27 febbraio 2022. Similmente a quanto già era avvenuto in precedenza nell’ipotesi che una crisi interna potesse intaccare irreparabilmente il presente e il futuro dell’Alleanza, gli stati membri – un mese dopo l’inizio dell’invasione russa – decisero di estendere il mandato del segretario fino al settembre 2023, poi ampliatosi ulteriormente fino all’ottobre 2024 dopo un successivo pronunciamento del Consiglio del 4 luglio 2023.
Lasciando sullo sfondo quanto fatto dall’Alleanza negli ultimi due anni per rafforzare la propria postura strategica e sostenere Kyjiv, è possibile notare un marcato attivismo di Stoltenberg nel voler plasmare – o contribuire alla formazione – delle scelte degli stati membri riguardo temi rilevanti per la sicurezza alleata. Non è infatti passata inosservata la presa di posizione di Stoltenberg nei confronti di tutti quegli alleati che vietano o hanno vietato per lungo tempo l’impiego dei propri armamenti per attaccare posizione russe al di fuori del territorio ucraino.
«Credo sia arrivato il momento per gli alleati di considerare se sia necessario sollevare alcune delle restrizioni imposte in merito all’utilizzo delle armi donate all’Ucraina», ha affermato Stoltenberg intervistato dal The Economist lo scorso maggio. «Dove la prima linea e il confine pressoché coincidono» – ha aggiunto – «vietare il diritto dell’Ucraina ad attaccare obiettivi militari sul territorio russo ostacola il diritto ucraino all’autodifesa».
Al netto dei dinieghi dati – ad esempio – da Roma e Berlino e delle critiche avanzate da alcuni commentatori circa l’appropriatezza di simili esternazioni, le parole di Stoltenberg possono essere considerate come il segnale di una maggiore rilevanza acquisita dal vertice della burocrazia alleata nel corso dei decenni. Come riportato dallo studioso Ryan C. Hendrickson, dati empirici supporterebbero il consolidamento di questa tendenza a seguito termine del confronto bipolare, anche in ragione dell’ampliarsi delle competenze attribuite all’Alleanza.
In altre occasioni, infatti, vari segretari si erano già fatti portatori di istanze e convinzioni personali poi successivamente adottate dall’assemblea: emblematica l’opera di persuasione messa in atto dal tedesco Manfred Wörner in merito alla necessità di spingere la Nato ad agire militarmente nei Balcani durante la prima metà degli anni Novanta, sfociata poi nell’operazione Deliberate Force. Più recentemente, il danese Anders Fogh Rasmussen – predecessore dello stesso Stoltenberg – ha utilizzato estensivamente i diversi media per porre l’accento su tematiche che riteneva dovessero essere integrate l’Alleanza. Alla luce della singolare contingenza di eventi e della loro differente natura, non si può non rilevare come Stoltenberg abbia seguito le tracce di chi lo aveva preceduto, sfruttando di volta in volta le crisi per spingere l’Alleanza verso nuovi orizzonti.