Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Climate Forward in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.
Qualche anno fa, l’interesse per l’energia eolica offshore era così forte che si stanziavano decine di miliardi di dollari per piazzare centinaia di turbine alte come grattacieli nell’Atlantico, dal Maine alla Virginia. Più recentemente, però, molti di questi progetti si sono arenati, dato che i dirigenti delle aziende interessate avevano calcolato male l’impatto che la pandemia e l’aumento dei tassi di interesse avrebbero avuto sulle catene di approvvigionamento. Per gli installatori è diventato molto più difficile del previsto produrre, trasportare e montare le turbine eoliche: nelle acque degli Stati Uniti ne sono state collocate soltanto venticinque, mentre nei mari dell’Europa, dove già da decenni si costruiscono parchi eolici offshore, ce ne sono già più di seimila.
Di conseguenza, il costo dell’energia eolica offshore rimarrà più alto del previsto e i suoi benefici ambientali ed economici, in alcuni casi, si percepiranno con anni di ritardo rispetto alle proiezioni. Alcuni parchi eolici potrebbero subire ritardi. Altri potrebbero invece non essere mai costruiti.
Finora, gli Stati della East Coast hanno assegnato appalti per la costruzione di circa venticinque parchi eolici offshore con una capacità elettrica di 21 gigawatt, sufficiente a soddisfare il fabbisogno di oltre sei milioni di abitazioni. Ma molti progetti sono stati annullati o hanno subito uno stop per rinegoziare le tariffe di quasi la metà delle infrastrutture previste. Gli analisti stanno quindi ridimensionando le aspettative: secondo BloombergNef (che è il ramo dedicato alla ricerca della società di informazioni e dati finanziari di Michael Bloomberg), entro il 2030 saranno installate strutture capaci di garantire circa 15 gigawatt di eolico offshore. Si tratta di una cifra inferiore di circa un terzo rispetto a quanto era stato previsto nel giugno 2023. L’Europa, invece, può già contare su circa 32 gigawatt di eolico offshore.
Orsted, una società danese che ha costruito più di venti parchi eolici sotto costa, soprattutto in Europa, ha cancellato due giganteschi impianti di cui era prevista l’installazione nelle acque al largo del New Jersey e ne sta riconsiderando altri due destinati allo Stato di New York e al Maryland. L’azienda ha dichiarato di voler cancellare progetti per circa 5,6 miliardi di dollari. E Bp, che nel 2020 ha versato 1,1 miliardi di dollari per una partecipazione del cinquanta per cento nel portafoglio di impianti eolici offshore statunitensi della società norvegese Equinor, ha annullato un accordo del valore di cinquecentoquaranta milioni di dollari.
Stati come quelli di New York e Massachusetts stanno cercando di salvare i progetti ma sembrano essere ormai consapevoli del fatto che dovranno pagare prezzi più alti per l’elettricità generata rispetto a quanto avevano previsto. «Il mercato statunitense dell’eolico offshore è ancora in uno stadio infantile e forse alcuni Stati hanno cercato di mettersi a correre prima di aver imparato a camminare», ha dichiarato Atin Jain, senior associate di BloombergNef. «Ora stanno invece diventando più realisti riguardo alle sfide che gli sviluppatori devono affrontare e nel lungo periodo questo atteggiamento si rivelerà utile».
La costa orientale degli Stati Uniti è stata a lungo considerata un luogo privilegiato per l’eolico offshore. Come quelle del Mare del Nord, le sue acque sono relativamente poco profonde e sono quindi ideali per le turbine. Gli Stati nordorientali, inoltre, hanno fissato degli obiettivi ambiziosi in materia di energie rinnovabili per affrontare il cambiamento climatico, ma spesso è costoso e difficile trasportare l’energia eolica o solare nelle città e nelle zone costiere più densamente popolate.
La mancanza di altre opzioni praticabili per rendere più pulita la fornitura di energia nella parte settentrionale della East Coast spiega perché nessuno degli Stati, né il Presidente Joe Biden, abbiano rinunciato ai loro ambiziosi obiettivi per quanto concerne l’eolico offshore. Ali Zaidi, consigliere nazionale di Biden per il clima, ha sottolineato in un’intervista i grandi progetti offshore in corso nel Massachusetts, nello Stato di New York e in Virginia, osservando che il settore è cresciuto rapidamente partendo da zero solo tre anni fa. L’Amministrazione prevede di completare entro il 2025 le revisioni federali per almeno sedici parchi eolici offshore, ciascuno dei quali sarebbe in grado di alimentare centinaia di migliaia di abitazioni. «Ci sono alcuni progetti che affrontano delle turbolenze», ha detto Zaidi. «Ma ciò non basta a impedirci di andare avanti e di compiere dei progressi».
I dirigenti del settore energetico affermano che le loro aziende stanno imparando dai propri errori e stanno facendo degli investimenti che dovrebbero rivelarsi fruttuosi nei prossimi anni. Dominion Energy, una grande utility con sede in Virginia, sta procedendo con un enorme parco eolico e sta spendendo seicentoventicinque milioni di dollari per la prima nave costruita negli Stati Uniti in grado di trasportare in mare le pale, che sono lunghe più di novanta metri, e altri componenti delle turbine eoliche. «Avevamo bisogno di consolidare la fiducia nel nostro programma», ha dichiarato l’amministratore delegato di Dominion, Robert Blue. «E un modo per avere fiducia è avere una nave», ha aggiunto.
Orsted, la più importante azienda al mondo per lo sviluppo di impianti eolici offshore, ha guadagnato terreno negli Stati Uniti acquistando nel 2018 una società del Rhode Island chiamata Deepwater Wind per cinquecentodieci milioni di dollari. Deepwater deteneva l’unico parco eolico offshore già operativo negli Stati Uniti e possedeva un portafoglio di progetti già proposti.
Era un’epoca inebriante. Gli sviluppatori erano ansiosi di entrare in un nuovo mercato e si affrettavano a firmare contratti per la fornitura di elettricità che sarebbe stata prodotta negli impianti offshore in fase di sviluppo a tariffe che presupponevano un’inflazione minima o nulla. Non si aspettavano grandi turbolenze. La loro si è rivelata però una scommessa sbagliata. Durante la presidenza di Donald Trump, da sempre critico nei confronti delle turbine eoliche, il governo federale ha bloccato i permessi. Poi la pandemia ha distrutto le catene di approvvigionamento, rendendo i pezzi più alti. E, in seguito, la Federal Reserve ha alzato bruscamente i tassi di interesse per contenere l’inflazione, facendo salire il costo del denaro.
Ora le aziende sono bloccate davanti alla prospettiva di costruire impianti multimiliardari per fornire energia a dei prezzi che non hanno più senso. «Il mondo ora appare completamente diverso», ha detto nello scorso novembre l’amministratore delegato di Orsted, Mads Nipper, riferendosi alla differenza tra la situazione attuale e quella del 2018 e del 2019, anni in cui l’azienda si era aggiudicata il contratto per la costruzione di Ocean Wind 1, il primo dei due progetti che avrebbe dovuto sviluppare in New Jersey e che ha poi accantonato.
Il colpo definitivo, ha detto Nipper, è arrivato nella seconda metà del 2023, quando è diventato chiaro che una nave che la società aveva prenotato per poter installare nel corso del 2024 le fondamenta che ancorano le enormi turbine al fondo del mare non sarebbe arrivata in tempo. Questo imprevisto ha minacciato un aumento dei costi potenzialmente enorme. L’azienda si è quindi tirata indietro, ma ormai aveva già accumulato delle ingenti perdite. «Ho molti dubbi sul fatto che si riprenderanno e che torneranno a essere quello che pensavamo che fossero» due o tre anni fa, ha dichiarato Anders Schelde, direttore finanziario di AkademikerPension, un fondo pensione danese.
Come altre società, anche Orsted si sta ora con centrando sugli accordi statunitensi più promettenti, cercando di rinegoziare o accantonare gli altri. «I costruttori dovranno decidere quali progetti siano fattibili e quali no e procedere di conseguenza», ha dichiarato Eamon Nolan, socio dello studio legale Vinson & Elkins, specializzato in energia. L’anno scorso Orsted ha iniziato a produrre energia elettrica per Long Island, nello Stato di New York, grazie a un modesto impianto chiamato South Fork Wind, e ora la società sta procedendo con lo sviluppo di Revolution Wind, un progetto da quattro miliardi di dollari che fornirà energia in Rhode Island e in Connecticut. Ma l’azienda sta ancora decidendo come procedere con un altro progetto nello Stato di New York, chiamato Sunrise Wind, che in base al contratto precedente potrebbe non essere più economicamente sostenibile (ma che è stato nel frattempo approvato dalle autorità locali, ndr).
Anche i governi dei vari Stati stanno cercando di salvare il salvabile. Il Massachusetts e il Connecticut consentono ora di adeguare i contratti per i nuovi progetti eolici offshore all’inflazione che si registra prima dell’inizio dei lavori. Gli Stati si stanno preparando anche a pagare prezzi più alti del previsto per l’energia. In un’asta a New York in ottobre, le tre società vincitrici hanno offerto di vendere energia alle società di distribuzione a tariffe superiori di circa un terzo rispetto alle aggiudicazioni precedenti. «Non è che la gente abbia detto: “Abbandoniamo queste aste”», spiega Deepa Venkateswaran, analista della società di ricerca Bernstein, «ma chiedono prezzi molto più alti e una protezione molto maggiore».
Il settore si trova anche ad affrontare il problema dell’uovo e della gallina. Uno dei motivi per cui i progetti eolici offshore sono così costosi è che gli Stati Uniti non dispongono di una solida catena di approvvigionamento nazionale. Ma i produttori non possono giustificare la costruzione di grandi fabbriche dal momento che non sanno se poi ci sarà davvero una domanda sufficiente. «Quando si verificano molte cancellazioni di progetti, si indeboliscono le ragioni che per avviare una produzione nazionale», ha dichiarato Josh Irwin, vicepresidente senior delle vendite offshore di Vestas, azienda danese leader mondiale nella produzione di turbine, «siamo ancora in una situazione in cui si attende di capire che cosa succederà».
Dominion sta cercando di eliminare un po’ di incertezze grazie alla sua nuova nave Charybdis, che prende il nome da un mitico mostro marino greco. Anche se è in ritardo di mesi sulla tabella di marcia e costerà circa il venticinque per cento in più del previsto, i dirigenti hanno dichiarato che questa nave, lunga quasi centocinquanta metri, farà risparmiare tempo e denaro all’azienda. Infatti, un’antica legge federale, il Jones Act, prescrive che solo le navi costruite in America, di proprietà americana e provviste di personale americano possano operare nelle acque degli Stati Uniti.
«Questo non risolverà tutti i problemi, ma è un primo passo sul percorso che potrà condurre alla costruzione di navi negli Stati Uniti», ha dichiarato Lars T. Pedersen, amministratore delegato di Vineyard Offshore, che sta sviluppando dei progetti al largo del Massachusetts, dello Stato di New York e della California.
La Charybdis sarà in grado di trasportare contemporaneamente da quattro a otto componenti di turbine eoliche, a seconda delle dimensioni dei pezzi. La gru della nave può sollevare duemiladuecento tonnellate, che corrispondono più o meno al peso di sei aerei Boeing 747. Dominion ha dichiarato che, quando inizieranno effettivamente le installazioni delle turbine in questo progetto che ne prevede centosettantasei, la nave consentirà di installarne una al giorno.
Si tratterebbe di un notevole miglioramento rispetto a un progetto pilota che Dominion ha intrapreso nel 2020, impiegando un anno per installare solo due turbine offshore. In quell’occasione, a causa del Jones Act, l’azienda aveva utilizzato delle navi europee che operavano facendo base in un porto della provincia canadese della Nuova Scozia, a più di ottocento miglia di distanza, e questo aveva rallentato il progetto. Quell’esperienza ha contribuito a convincere i dirigenti di Dominion della necessità di procurarsi una nave conforme al Jones Act che potesse essere utilizzata partendo dai porti statunitensi.
La Charybdis, che è in costruzione a Brownsville, in Texas, è a buon punto e Dominion prevede di averla a disposizione per il progetto Revolution Wind di Orsted, vicino alla costa del Connecticut. La nave passerebbe poi al progetto di Dominion, che la società spera di completare entro la fine del 2026. «Non stiamo cercando di stabilire dei record», ha dichiarato Blue, amministratore delegato di Dominion, «quello che stiamo cercando di fare è fornire energia affidabile, conveniente e sempre più pulita».
© 2023 THE NEW YORK TIMES COMPANY