I grandi giornali non hanno dato spazio a una notizia che pure è molto evocativa di un problema di fondo della politica italiana: se ci sia o no spazio per una forza europeista, progressista, riformista che raccolga le energie che vi sono nel Partito democratico e nel disperso mondo ex terzopolista. Mentre pare che la politica si stia in qualche modo riassestando su uno strano clivage destra-sinistra (strano perché i due poli sono divisi al loro interno: si guardi al voto su Ursula von der Leyen), la questione riguarda l’evanescenza di soggetti e idee in qualche modo diversi dai due blocchi.
La notizia non data dai grandi giornali è quella del voto contrario del Pd (totalmente ininfluente, per fortuna) relativo alla possibilità di colpire le basi russe da cui partono i missili contro le città ucraine, i suoi ospedali, le sue scuole, le sue case. Gli altri partiti socialisti, più seri, hanno votato invece a favore. Oltre alla gravità del merito di questa scelta (ma sì, lasciamoli sparare i russi, tanto tra un po’ la guerra finirà – è il retropensiero), preoccupa la logica adottata dai cosiddetti riformisti del gruppo.
Un gruppo parlamentare europeo, quello del Pd, che già alla prima uscita si è mostrato poco affidabile, diviso, impolitico e nel quale prevale uno schleinismo rozzo, elementare, manicheo, a cui in questo passaggio si è opposta, si fa per dire, la geniale tattica degli autoproclamati riformisti (con le due belle eccezioni di Pina Picierno e Elisabetta Gualmini): votiamo tutti contro questo punto così poi non ci spacchiamo sulla mozione complessiva. La vicenda ha lasciato strascichi pesanti nella cosiddetta area riformista (citofonare all’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini) ormai allo sbando dopo la sostanziale abdicazione di Stefano Bonaccini dal suo quantomeno ruolo dialettico rispetto alla segretaria.
Così, i nuovi riformisti dell’eurogruppo hanno combinato questo bel pasticcio e dunque Lello Topo ha votato come Alessandro Zan, Giorgio Gori come Sandro Ruotolo. Una cosa è certa: quest’area va rifondata dalla A alla Zeta. E non stiamo parlando delle tattichine interne, delle nominette, degli incarichini, cose di cui non frega niente a nessuno tranne i diretti interessati e si loro famiglia.
La questione è se nel Pd esiste ancora la battaglia delle idee. Se cioè lo schleinismo imperante, questa terza via tra populismo e sinistra pura, vada ormai ossequiato in ogni modo o se, sull’Ucraina o sul giustizialismo (a Genova ieri mancavano solo le monetine contro Giovanni Toti), sulle riforme istituzionali o sul lavoro, possa esistere ancora un’area politica che non accetta il frontismo del gruppo dirigente ma guarda ai Keir Starmer e ai Raphaël Glucksmann non accettando di gettare alle ortiche della memoria i fondamenti del Pd veltroniano e anche renziano.
Bisogna capire se debba ogni volta prevalere la “mediazione”, che poi spesso è una resa, o se quando è necessario ci si debba alzare per manifestare il dissenso. Il tempo degli accordicchi è finito: oppure todos schleinianos. Si tratta di guardare anche oltre, fuori dal Pd. Perché non ci si può non porre la questione di quel sette-otto per cento dell’ex Terzo Polo (tenuto conto che Schlein ormai a sinistra ha preso quello che doveva prendere e sarebbe ora di parlare anche a gente meno esagitata dei proPal et similia).
La segretaria ha fatto il suo, finora. Dal suo punto di vista, dieci e lode. Può fare quel che vuole, persino abbracciare Renzi anche se (per ora) solo su un campo di calcio. Sono i riformisti che devono imitarla, facendo politica, proposte, dicendo i sì e i no. Per fare in modo di non fare altre brutte figure, nell’emiciclo di Bruxelles come in una piazza di Genova.