Cantiere aperto La sfida riformista del centrosinistra può portare a una stagione nuova, ma servono idee chiare

Se l’obiettivo è costruire una solida alternativa di governo, occorre partire dalle fondamenta. Visione, ambizione e coraggio, scrive il senatore di Italia viva, sono la combinazione vincente per la nascita di una coalizione capace di resistere all’ondata del capitalismo digitale

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Le interviste con le quali Matteo Renzi ha aperto alla possibilità di una alleanza di centrosinistra, preso atto della fine della stagione dei veti che nei fatti ha spianato la strada a una Giorgia Meloni che ha raggiunto Palazzo Chigi con una maggioranza relativa dei voti, aprono a una stagione nuova. La quale necessita, per comprendere l’effettiva portata di una potenziale alleanza e soprattutto la sua capacità di tradursi in azione di governo sottraendo l’attuale «campo largo» dall’esercizio velleitario di una opposizione fin qui costruita essenzialmente in una dinamica «a specchio» rispetto alla destra, di un lavoro di approfondimento, scavo e sintesi delle questioni di fondo sulle quali cementare una possibile intesa politica.

La costruzione di un’alternativa di governo, infatti, si basa su alcuni elementi strutturali. Il primo è la velocità dell’intuizione del momento. E, su questo, Matteo Renzi ha impresso il ritmo di marcia, e il senso della direzione, con la vitalità e la capacità che gli è propria, e che gli viene riconosciuta anche dai più accaniti detrattori. Il secondo è la traduzione sul piano dell’azione politica della proposta. Ed è su questo terreno che ci si deve esercitare, per consentire l’effettiva nascita di una coalizione di governo, che sappia stare al governo con la testa di chi sa che vuole governare, e non – come accade oggi alla destra – con la testa di chi è rimasto all’opposizione, e che si comporta pertanto dentro questo riflesso condizionato che porta inevitabilmente ad errori (la vicenda della governance europea e del voto contrario dell’Italia a tutta la «triade» Ue è in questo clamorosa).

Sta dentro questa doppia strutturalità il valore aggiunto dei riformisti, che hanno nel proprio dna politico il rigetto dell’approccio ideologico, della lettura dogmatica e delle logiche pregiudiziali dei fatti e della Storia, e che in questo senso si possono proporre come elemento essenziale (sia sotto il profilo numeriche che sotto quello politico) ad un centrosinistra che sappia costruire una coalizione fondata su una autentica cultura di governo, puntando in questo ad essere più l’erede dell’Ulivo  che non dell’Unione – ovvero una sommatoria speculare ed incoerente – (l’ipotesi di scuola dei Progressisti del 1994 e della «gioiosa macchina da guerra» lasciamola pure direttamente agli archivi, insieme con l’evocazione di un «Fronte Popolare» col quale l’Italia ha già fatto i conti il 18 aprile 1948).

Una coalizione solida, per una reale alternativa di governo, si deve poggiare pertanto su una lettura condivisa dell’evoluzione storica e su una analisi delle azioni politiche da compiere per conseguire gli obiettivi che ci si pone. 

A mio giudizio, il punto focale di tale azione deve considerare nella domanda su quale democrazia e quale società intendiamo realizzare nell’era del capitalismo digitale. E come rischiamo a recuperare visione, ambizione e coraggio per affrontare questa fase che abbiamo davanti, destinata a scavare nel profondo del futuro.

Stiamo vivendo, infatti, dentro una faglia della Storia, con la transizione dal capitalismo industriale a quello digitale che produce fenomeni del tutto inediti, rispetto ai quali siamo portati ad interrogarci sul fatto se le democrazie saranno forti, attrezzate e adeguate per portarci fuori dalla tempesta dei «furiosi anni Venti». Il mondo, infatti, rischia di cadere nella fascinazione delle autocrazie come strumenti più rapidi, più efficienti e più moderni per affrontare e governare le sfide dei tempi nuovi.

Nel mondo nuovo che sta nascendo, tutto di proprietà delle «Big Tech», si innestano potenzialità straordinarie e rischi incombenti non solo per la democrazia, ma per la stessa dimensione antropologica della persona, che rischia di essere trasformata da soggetto ad oggetto, da cittadino a consumatore, da libero a suddito dentro il cosiddetto «capitalismo della sorveglianza».

Le enormi concentrazioni di potere informativo, economico, finanziario e – in una prospettiva che si sta abbozzando sempre più – anche politico possono determinare il controllo dell’informazione e il controllo dei dati di ciascuno, puntando a stravolgere i pesi e i contrappesi su cui si reggono i sistemi democratici.

L’intelligenza artificiale generativa si propone ogni giorno sempre di più, proponendosi da un lato di risolvere grandi interrogativi legati alla scienza e alla medicina e dall’altro a sostituirsi all’uomo nella sua creatività, e persino nella sua affettività.

Viviamo una fortissima evoluzione  rispetto alle implicazioni insegnateci da Marshall McLuhan («il mezzo è il messaggio»), nella quale gli strumenti della comunicazione vedono aumentata la capacità di assorbire ed elaborare stimoli di ogni tipo, diminuendo la capacità di elaborare e ricordare, e studiosi e scienziati sociali come Nicholas Carr o Jaron Lanier arrivano a parlare di rischio di «totalitarismo cibernetico» di chi – come il teorico della singularity Ray Kurzweil – considera l’uomo un computer biologico destinato a essere raggiunto, superato, e in molti casi soppiantato dall’intelligenza delle macchine.

Tutto questo pone nuove domande, nuovi bisogni e nuove esigenze alla politica. Quale deve essere la risposta dei governi? Qual è il ruolo dello Stato oggi in questa dimensione? Qual è il confine antropologico da non superare per la salvaguardia della soggettività della persona e la sua tutela contro lo scadimento della sua trasformazione in merce o in scarto? Le democrazie sono abbastanza forti per resistere a questa ondata tempestosa?

Se il nostro futuro è fatto di capitalismo digitale (i dati) e della sorveglianza, di guerre tra gli Stati e di scontri e ricomposizioni tra le potenze economiche della tecnologia  che hanno raggiunto – e forse superato – il meccanismo di monopolio dei trust dell’acciaio, del tabacco e del petrolio degli USA di fine Ottocento, allora si capisce quanto bisogno ci sia della nostra iniziativa politica.

Perché un’alternativa compiuta, organica e strutturata ad una destra che attorno a questi tempi sceglie semplicemente la totale subalternità e la fallace chiusura autarchico-nazionalista pensando in tal modo di metterci al riparo da un’ondata che non può essere in alcun modo evitata, ma che va al contrario regimata e governata (ecco il compito della politica riformista ed europeista!) non si può costruire stando dentro il perimetro delle parole d’ordine della «confort zone».

Oggi Elly Schlein dice che è sulle cose concrete che si realizza un’alleanza. Bene, ma alle cose concrete si arriva quando è chiaro il quadro d’insieme. Senza il contesto, non si può comprendere il testo. La leader del Pd insiste sui binari del recupero di alcune coordinate essenziali: sanità, scuola, lavoro. 

Tali coordinate (sulle quali è giusto entrare nel merito, dicendo che servono modelli innovativi e scelte coraggiose per far sì che la sanità pubblica generalista non si risolva nel buco di bilancio eterno delle Asl, o che il lavoro si affronta non con lo sguardo rivolto al passato, ma ponendosi le domande del futuro che è già qui) vanno ricondotte ad un elemento di fondo, per evitare che si rinchiudano nel recinto degli slogan.

Qual è la caratteristica essenziale della politica in questa fase storica, e qual è il mastice attorno al quale si deve costruire una alleanza politica di governo?

Oggi stiamo vivendo la nuova rivoluzione produttiva, quella digitale. Essa segue le rivoluzioni che l’hanno preceduta (del vapore, dell’elettricità, del motore a combustione interna) che avevano creato nuove economie ad alta domanda di manodopera. Oggi il passaggio al digitale crea poco lavoro diretto, e si dibatte attorno al rischio disoccupazione indotto dall’intelligenza artificiale.

Quindi c’è un rischio: andare verso un ulteriore aumento delle disuguaglianze, causato dal solco sempre più profondo tra chi è in grado di cavalcare la rivoluzione digitale e chi ne viene messo ai margini. Tra gli inclusi e gli inclusi. I vincenti e gli sconfitti. Ieri della globalizzazione, domani del capitalismo digitale. Lavoratori sostituiti da robot, dipendenti che non riescono a riqualificarsi, mestieri che si perdono dentro l’automazione.

Questo è un grande tema, che merita la costruzione di una alleanza che risponda non con la suggestione autarchica o la demonizzazione luddista della destra, ma con la capacità di governo della politica. 

È su questo, ad esempio, che si gioca l’esigenza di una azione nella direzione di un forte incremento della produttività del lavoro, tale da rendere possibile una crescita dei salari reali in grado di impattare lo scompenso sociale in arrivo, o una forte azione di sostegno alla formazione continua delle maestranze, per salvare il lavoratore e non il lavoro che rischia di non esserci più.

Le rivoluzioni industriali di fine Settecento e fine Ottocento sono sfociate in un mondo che ha prodotto maggiore benessere del precedente, ma come insegna Dickens hanno prodotto livelli di sperequazione sociale che oggi sarebbero intollerabili.

Siamo in grado di salvare le «vittime della transizione digitale»? Ecco un bel programma politico, per chi ha a cuore determinati valori in un’ottica di modernità e di non di specchietto retrovisore. Con il recupero, o se preferite l’affermazione, di tre caratteri salienti di una rinnovata proposta di governo.

Anzitutto, la visione. Se c’è una eredità amara che la destra sta regalando all’Italia, è la totale assenza di una prospettiva e di una idea di Paese. La nostra Repubblica sembra rinchiudersi in una prospettiva asfittica, provincialista e priva di slancio. Una proposta riformista, una capacità di governo deve invece assicurare uno sguardo lontano, chiaro, percepibile, distinto di dove si vuole andare e di come si vuole farlo. 

A fianco di essa, l’ambizione. Intesa non nella sua accezione negativa, di desiderio egocentrico di affermarsi e distinguersi, ma nella sua prospettiva positiva di desiderio legittimo di migliorare la propria posizione e di essere finalmente valutati secondo i propri meriti e le proprie capacità.

E, come compendio a tutto ciò, la capacità di recuperare il coraggio. Per chiudere la stagione di una politica stantìa, ripetitiva e consociativa, che tende a trasformarsi in compagnia di giro in cui ad uno spettacolo ripetitivo e stancante (oggi è il turno della diade fascismo-antifascismo) fa da contraltare l’inamovibilità di classi dirigenti e di strutture burocratiche, e lo svuotamento della politica che affida ad un nostrano «deep State» all’amatriciana e alle incursioni dall’esterno il compito di perpetuare i meccanismi, le conoscenze e gli strumenti del potere determinando un tremendo «effetto tappo» per le prospettive del Paese.

Forse, recuperando visione, ambizione e coraggio e trasferendo su queste caratteristiche l’impianto riformista per affrontare e vincere le sfide tremende dell’era del capitalismo digitale, torneremo a parlare a quel cinquantuno per cento di elettori che è rimasto a casa nei due giorni elettorali delle elezioni europee, e che continua puntualmente a gonfiare le vele dell’astensionismo forse perché in cerca di questo, che ancora non trova.

E su questo che, a mio giudizio, dobbiamo aprire un cantiere con chi ci sta, con chi ha idee e con chi ha voglia di confrontarsi, il vista di un dialogo per trovare insieme le strade, le risposte e le iniziative della stagione nuova che abbiamo aperto.

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