All’inizio del Novecento, la Terza Repubblica francese traballò a causa del processo Dreyfus. La Terza Repubblica italiana al contrario certo non traballerà per il processo Bersani-Vannacci. L’Affaire Dreyfus divise drammaticamente quel Paese in due; nell’Italia del 2024 sembrerà invece di assistere a una parodia di Giovanni Guareschi.
Teoricamente, Pier Luigi Bersani potrebbe perdere il processo contro Roberto Vannacci perché non si può dare del «coglione» a nessuno: è diffamazione. Anche se il diffamato sembra avere i titoli e le stellette per meritarsi l’epiteto, non si può insultarlo. Vale per chiunque, anche e soprattutto per un uomo politico importante come Bersani. In pratica se si dovesse ricorrere alla magistratura tutte le volte che uno adopera certi epiteti il sistema giustizia, già malato di suo, s’ingripperebbe del tutto.
C’era bisogno di un affaire Vannacci? Non si poteva chiudere la questione in un altro modo? Non diciamo con una stretta di mano perché sarebbe stato un gesto ipocrita, ma insomma ci si rende conto del livello raggiunto? Il bersaniano Arturo Scotto – non esattamente un giurista – sostiene che «dare del coglione a un generale che sdogana frasi aberranti non è un giudizio di merito. Ma una constatazione oggettiva». Oggettiva per lui. Ma Scotto non è la legge. Già i tifosi si prenotano per un posto in prima fila nell’aula del tribunale come se si trattasse di “Testimone d’accusa” di Billy Wilder, immaginiamoci che faranno i talk: ma non sarà il Processo di Norimberga.
Vedremo come finirà questa controversia più da società dello spettacolo che da Paese serio. Una considerazione da fare riguarda non solo Bersani ma tutta la sinistra e anche parte dell’informazione: non è che con questi “dagli al coglione” si finisce per gonfiare l’immagine di quest’ultimo? Il vannaccismo non va oltre la volgarità minore delle caserme, apparendo come l’equivalente politico del rutto dopo una bevuta tra camerati in una notte di pioggia. Uno che sullo ius soli dice che «se uno nasce in una scuderia non è un cavallo» non è un problema per la democrazia ma per sé stesso e per i suoi cari che tra un po’ potrebbero trovarlo con lo scolapasta in testa a caccia di gay e neri.
Criticarlo va bene, ogni tanto, ma va fatto con dolcezza, come si fa con chi ha difficoltà a relazionarsi col mondo reale, senza farne un normale avversario politico: quelli sono ben altri.
Chiamatelo “generale C”, dalla prima lettera dell’epiteto bersaniano. Ma meglio il silenzio che le intemerate. «Se parlano da bar, dobbiamo parlare da bar anche noi», ha detto Bersani. Sarebbe preferibile di no. La barizzazione della politica va lasciata ad altri, l’imbarbarimento del dibattito pubblico va combattuto con armi diverse da quelle usate dai barbari. Per cui abbandonatelo alle sue fobìe, il “generale C”, e destinate le residue forze della sinistra a battaglie più qualificate e ricche di senso.