Lezioni di stile Alcide De Gasperi e gli insegnamenti di una classe politica colpevolmente dimenticata

Antonio Polito in “Il costruttore” (Mondadori) racconta alcuni dei passaggi cruciali di uno statista della Repubblica, che ha contribuito a definirne i confini per come li conosciamo oggi e a cui questa generazione di partiti dovrebbe ancora ispirarsi

Silvio Durante/LaPresse

La storia prende, la storia dà. E Alcide De Gasperi ha dato tanto alla storia d’Italia. È stato scritto che «quasi tutti gli atti politici che qualificarono i decenni seguenti affondano le proprie radici nel solido impianto interno e internazionale che aveva lasciato dietro di sé». Ma forse si può dire anche di più: l’intero campo di gioco in cui si è svolta la vita della Repubblica, dalla nascita fino ai nostri giorni, è stato disegnato dall’azione di quell’unico «premier forte» che abbiamo mai avuto. L’ultimo presidente del Consiglio del Regno d’Italia e il primo presidente del Consiglio della Repubblica.

Il leader che fu arrestato dal fascismo perché antifascista (è stato lui a istituire la festa nazionale del 25 aprile), e che mise i comunisti all’opposizione perché anticomunista (con il trionfo elettorale del 18 aprile 1948). Eppure l’eccezionalità della sua vicenda, che può essere avvicinata solo a quella di un Adenauer in Germania o di un De Gaulle in Francia, come lui rifondatori della patria dopo la tragedia della guerra, non è diventata memoria comune della nazione, al pari di quanto è invece accaduto ai grandi leader europei coevi.

La sua gigantesca impronta sulla storia d’Italia è oggi quasi dimenticata. Forse perché coperta dallo stile dei successori, che trasformarono ben presto il «suo» partito, la Dc, e il suo metodo di governo in qualcosa di molto diverso. Non ero mai andato prima sulla tomba di un politico. E mi sorprende ancora oggi averlo fatto per De Gasperi, qualche mese prima di cominciare a scrivere questo libro. Ero stato, sì, a visitare la sepoltura di Gramsci, nel cimitero acattolico di Porta San Paolo a Roma. Ma più che per un omaggio al fondatore del Pci, in segno di ammirazione per il pensatore, l’intellettuale che ha introdotto il concetto di egemonia nel marxismo-leninismo. E anche per rileggere, nel luogo dove erano stati pensati, i versi di Pier Paolo Pasolini: «… presso l’urna, sul terreno cereo, / diversamente rossi, due gerani. / Lì tu stai, bandito e con dura eleganza/ non cattolica, elencato tra estranei / morti: Le ceneri di Gramsci…».

Una poesia che mi tocca ancora oggi perché è anche un commiato, la confessione di una disillusione, e la constatazione di un cambiamento d’epoca: «Ma io, col cuore cosciente / di chi soltanto nella storia ha vita, / potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?». Pasolini scrisse questi versi nel 1954, proprio l’anno in cui De Gasperi moriva e le sue spoglie venivano portate, tra due ali di folla che a ogni stazione accorreva spontaneamente a rendergli omaggio, da Borgo Valsugana fino a Roma. E mi piace pensare che la disillusione del poeta comunista davanti alla tomba di Gramsci non fosse una coincidenza. O forse non lo è per me.

Anch’io, come lui e come tanti, sono stato da giovane un aspirante rivoluzionario, convinto che un rivolgimento, un’ora X, fosse necessario per poter migliorare la vita degli uomini. Poi, un po’ alla volta, ho capito che solo un cambiamento costante, progressivo, sostenuto dal consenso, può compiere il miracolo di trasformare la società come fa la neve con un paesaggio: un fiocco alla volta. E, lungo questa strada, ho «scoperto» la figura e l’opera di Alcide De Gasperi. Un leader che non ebbe bisogno di definirsi «riformista» per diventare il più grande riformatore della storia della Repubblica.

Ho perciò pensato che ai ragazzi dell’Italia di oggi valesse la pena di raccontare, e ai più adulti di ricordare, un uomo di governo così diverso dai muscolari e bulleschi personaggi che siamo abituati a vedere ogni giorno in tv. I politici contemporanei vogliono tutti rottamare, asfaltare, usare la ruspa, imbracciare il lanciafiamme. In Argentina ce n’è addirittura uno che è riuscito a farsi eleggere presidente andando in giro con una motosega. Fanno a gara per presentarsi come «distruttori», demolitori che promettono di abbattere l’edificio del passato. E di solito finiscono per abbattersi da soli.

Alcide De Gasperi, invece, quando l’Italia era davvero in macerie, distrutta e umiliata dalla guerra, si presentò come un «costruttore», che si proponeva di rimettere in piedi un Paese materialmente, economicamente, moralmente a pezzi, e prometteva di restaurare l’autorità evaporata di uno Stato che nel conflitto aveva perso anche la sovranità. Un uomo che, negli ultimi mesi del 1943, quando la sconfitta nella guerra era certa, il fascismo finito, la monarchia screditata, e tutto sembrava perso, scriveva: «C’è tanto da conservare, almeno quanto c’è da distruggere».

Il manifesto politico della sua battaglia contro i «distruttori» è forse il discorso di Predazzo del 1952. Nel «suo» Trentino, dove era andato per festeggiare i quarant’anni di attività politica, già cominciava a intravedere la trappola letale che avrebbe potuto chiudere la stagione della ricostruzione e delle riforme del centrismo: il pericolo, disse, è l’«unione delle forze per la demolizione che rende impossibile l’unione per la costruzione». Questa spada di Damocle degli estremismi che si sommano, impedendo l’azione, è da allora sempre rimasta sospesa in Italia su ogni progetto riformatore, e ancora oggi rende la nostra democrazia più fragile e instabile di tante altre.

Ma negli anni che vanno dal 1946 al 1953, data in cui fu costretto a lasciare il governo per non farvi mai più ritorno, De Gasperi riuscì a costruire un’Italia nuova, e molto migliore di quella che si era presa sulle spalle dopo la guerra. Si presentò, non ben accolto, al tavolo dei Vincitori per riscattare la nazione che aveva inventato il fascismo e servito il nazismo, preservandone l’integrità territoriale e conquistandole dignità e rispetto. Pose fine alla resistenza di Umberto II di Savoia che non voleva accettare la sconfitta nel referendum, e aprì così la strada alla Repubblica. Seppe usare con rigore ed efficienza i soldi del Piano Marshall, un Pnrr d’altri tempi, ponendo le basi per quel boom economico che avrebbe poi cambiato le condizioni di vita di milioni di italiani e trasformato un Paese rurale e povero in una delle prime nazioni industrializzate del mondo. Ci mise sotto lo scudo militare dell’alleanza con gli Stati Uniti nel Patto atlantico, per restare al di qua della cortina di ferro che divise il mondo della libertà da quello della tirannia comunista.

Scelse l’Europa come la nuova patria in cui l’Italia avrebbe potuto prosperare. Lui, un trentino delle valli, il presidente del Consiglio più settentrionale della storia della Repubblica, investì massicciamente nel Sud creando la Cassa per il Mezzogiorno, e dando così il via all’unico, breve periodo della storia unitaria in cui il divario con il Nord si sia ridotto.  Realizzò tra mille resistenze grandi riforme sociali, che cambiarono nel profondo la struttura sociale e di classe del Paese: la riforma agraria diede la terra a decine di migliaia di contadini espropriandola ai grandi latifondisti; il Piano casa costruì migliaia di alloggi per i più poveri rilanciando l’edilizia; con Enrico Mattei affidò all’Eni il monopolio pubblico dello sfruttamento dei giacimenti nazionali di idrocarburi. Bonificò i Sassi di Matera, uno scandalo nazionale, e diede un’abitazione decente a chi ancora viveva nelle grotte insieme a pecore e mucche.

Fece le scelte giuste, talvolta anche contro il suo partito, una volta anche contro il parere del papa. Ebbe il dono del «senno del prima». Non a caso ancora oggi, per indicare lo standard dei governanti che vorremmo, si cita un suo motto: «Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni». E tutto ciò lo fece un democristiano! Non un «rivoluzionario», ma anzi uno che oggi definiremmo con spregio «conservatore». E neanche un «nazionalista», o un «sovranista», ma anzi uno dei primi grandi europeisti, il quale aveva capito che l’interesse nazionale si protegge meglio in un consesso di nazioni in cui la sovranità è condivisa, e per questo moltiplicata.

Tratto da “Il costruttore. Le cinque lezioni di De Gasperi ai politici di oggi” (Mondadori), pp. 204, €18

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