Kamala, Hillary e AriannaLe donne in politica e la debolezza di parlare delle loro mamme

È il 1966, Mary Tyler Moore ha concluso il proprio ruolo di moglie in “The Dick Van Dyke Show”, e dice all’America: «Le donne sono, o dovrebbero essere, innanzitutto esseri umani, secondariamente donne, e al terzo posto mogli e madri: dovrebbe essere quello, l’ordine». Cinquantotto anni dopo, non l’abbiamo ancora capito

Associated Press / LaPresse

Cominciamo dalla balena? Cominciamo da Hillary from the block? Cominciamo da Mary Tyler Moore? Cominciamo dal fatto che proprio tutti hanno una madre? Cominciamo da Maureen Dowd? Cominciamo dal fatto che il contrario di «emancipazione», secondo il vocabolario, è «sottomissione»?

So che siete gente di questo secolo, con memoria da pesci rossi, e quindi credete che “Friends”, coi suoi ben trent’anni, sia storia della tv, ma no. La serialità comica alla tv americana l’ha plasmata una cosa che non avete mai visto, sessant’anni fa. Si chiamava “The Dick Van Dyke Show”, e l’elemento più importante (in neolingua: iconico) che ne è uscito è Mary Tyler Moore, che faceva la moglie, e che nel decennio successivo avrebbe avuto nientemeno che una sua sit-com, ma a questo poi ci arriviamo.

È il 1966, Mary Tyler Moore ha concluso il proprio ruolo di moglie alla tv, va ospite di David Susskind, e dice all’America – a un Paese in cui, per altri otto anni, le donne non avrebbero potuto aprire un conto corrente senza la firma del marito o del padre – questa frase qui: «Le donne sono, o dovrebbero essere, innanzitutto esseri umani, secondariamente donne, e al terzo posto mogli e madri: dovrebbe essere quello, l’ordine».

Cinquantotto anni dopo, al congresso del partito democratico per candidare per la seconda volta una donna a presidente, interviene Hillary Clinton, la prima donna a essere stata candidata a quel ruolo, e parla di sua madre e della madre di Kamala Harris; interviene Michelle Obama, e parla di sua madre ma soprattutto interviene in nome del suo essere una senza identità professionale (se non quella di scrivere memoir immedesimabili come una tiktoker anziana): una che ha rinunciato alla carriera per fare la moglie del presidente e la madre delle sue figlie.

Cinquantotto anni dopo l’emancipazione dal modello Jackie Kennedy che aveva proposto Mary Tyler Moore, le donne della politica somigliano (com’è opportuno sia nel secolo in cui l’elettorato vuole rispecchiarsi) alle donne qualunque. Quelle che alla carriera antepongono le bomboniere, e il cui concetto di realizzazione personale non è vincere il Nobel ma avere il perfetto servizio fotografico del giorno delle nozze. Cinquant’anni dopo la legge che sancì che, ohibò, le donne potevano tutte sole aprirsi un conto corrente e persino chiedere un mutuo, il partito di sinistra degli Stati Uniti d’America ha mandato forte e chiaro il messaggio che, anche allorché gattare sterili, le donne sono innanzitutto mogli e madri.

Dopo essere intervenuta davanti ai delegati del partito, Hillary è andata da Stephen Colbert, che in quei giorni trasmetteva da Chicago. A un certo punto lui le ha detto che lei ne aveva viste, «You’ve been around the block, lady», e lei ha ridacchiato, e il pubblico in studio ha applaudito, e tutti abbiamo pensato a JLo.

In quegli stessi giorni Jennifer Lopez ha presentato la richiesta di divorzio da Ben Affleck, col quale era tornata vent’anni dopo la separazione, facendo pigolare le donne di questo secolo, retrograde come le loro madri e nonne mai si sarebbero concesse d’essere, che allora il grande amore esiste, allora fanno giri immensi e poi ritornano, allora anch’io posso sospirare su quell’occasione perduta.

Ho pensato per qualche giorno che il parallelismo tra il congresso elettorale e la separazione Lopez-Affleck fosse solo nella mia testa, poi è successa una cosa da far chiedere agli sceneggiatori il sussidio di disoccupazione, tanto sono ridondanti, tanto la realtà se la cava benissimo da sola.

Poco dopo l’annuncio che Robert F. Kennedy jr., il candidato col verme nel cervello e l’orso morto nel bagagliaio, si ritirava dalla competizione elettorale e appoggiava Trump, è uscita la notizia che Affleck avrebbe un inizio di relazione con Kathleen detta Kick, seconda figlia di RFK jr. Se pensavate che quella dell’orso morto lasciato sulla ciclabile fosse la più incredibile storia delle nuove generazioni kennediane, è perché non avevate letto l’intervista che dodici anni fa Kick diede a Town and Country. Ricopio.

«Quando aveva sei anni, si sparse la voce che una balena morta era stata spinta sulla battigia di Squaw Island, a Hyannis Port. Bobby – che ama studiare gli scheletri degli animali – corse alla spiaggia con una motosega, tagliò la testa della balena, e poi la legò con delle corde elastiche al tetto del furgoncino di famiglia per le cinque ore necessarie a rientrare a Mount Kisco. “Ogni volta che in autostrada acceleravamo, i liquidi della balena entravano dai finestrini, era la cosa più schifosa del mondo”, ricorda Kick. “Avevamo tutti dei sacchetti di plastica in testa con solo un buco sulla bocca per respirare, e la gente dalle altre macchine ci faceva il dito medio, ma per noi era ordinaria amministrazione”».

Quando scrive le sue memorie di ex moglie di Roberto Rossellini, “Un matrimonio riuscito”, Marcella De Marchis pitta con una certa precisione quella che era la vita d’una donna abbandonata nell’Italia di fine anni Quaranta: «Mi trovai a pensare che ci sarebbero volute le case chiuse anche per le donne, per tutte le abbandonate, le vedove, le zitelle, le separate come me».

Il “Mary Tyler Moore Show”, di cui MTM fu protagonista negli anni Settanta, era un’idea della Moore e del marito, perché a volte per non invocare la clausura ma anzi dare dignità di rappresentazione pubblica alle zitelle ti serve un marito. Nella sit-com, che si svolgeva in una redazione televisiva, il capo di MTM, irritato dal suo piglio, le diceva «Sai cosa? Tu hai carattere» – sapiente pausa comica in cui lei s’illude sia un complimento e fa la faccia compiaciuta, e poi lui concludeva: «Io lo odio, il carattere».

Non sono sicura che «carattere» abbia la sufficiente sfumatura che serve da traduzione a «spunk» (cazzimma? Faccia come il culo?), ma una carriera è quel posto che fa la differenza per il carattere, il piglio, la faccia di culo come vantaggio competitivo, e non come caratteristica da barzelletta sulle mogli e le madri petulanti.

Cinquant’anni dopo Mary Tyler Moore, si è evidentemente deciso che il carattere delle donne è meglio tenerlo nascosto, metterlo in secondo piano rispetto alla maternità, perché una madre ce l’hanno proprio tutti ed è più facile fare presa come madre che come stronza.

Anche perché «madre» non ha le controindicazioni di «moglie». Maureen Dowd, una delle massime studiose del clintonismo, dice che Hillary ha sempre avuto il problema d’avere un piede nell’identità di moglie di Bill, con le inevitabili accuse di vantaggi e raccomandazioni, e l’altro in una realtà in cui, senza Bill, avrebbe fatto una vertiginosa carriera in politica con le sue sole qualità.

«Madre» è per sempre ed è per tutti, per gli uomini e le donne, persino gli orfani hanno una madre, persino le donne di potere. Al Foglio che l’ha intervistata facendole dire che si è separata da Lollobrigida (Francesco, quello delle guerre che finiscono a tavola, no Gina, quella della “Bersagliera”), Arianna Meloni ha detto che la madre sua e di Giorgia in questo periodo la chiama spesso, «è preoccupata come lo sarebbe qualsiasi mamma». Passano i Giambruno e i Lollobrigida, ma i figli non passano, sempre piezz’e core, sempre quelli di Filumena Marturano che non si pagano, sempre scarrafoni ad alto tasso di fotogenia, sempre affetti comprensibili anche al più stolido degli elettorati.

(Però forse «madre» può essere un limite, nell’epoca dello specchio, se si ha una qualche consapevolezza dei propri, di limiti. Sempre Maureen Dowd ha di recente rievocato i tempi in cui Geraldine Ferraro era candidata come vice di Mondale – era il 1984, fu rieletto Reagan – e le elettrici intervistate da Dowd dicevano che loro non ce l’avrebbero fatta a gestire un incarico del genere, e quindi ritenevano che non sarebbe stata in grado neanche la Ferraro. Era quando chi ci governava doveva somigliarci il meno possibile: che nostalgia).

Quando Hillary Clinton perse contro Donald Trump, si crearono tre correnti di pensiero. Quella del femminismo vittimista, secondo il quale aveva perso perché era una donna e questo mondo patriarcale una donna non la vota. Quella di Maureen Dowd, secondo la quale aveva perso perché era una Clinton, e l’America non ne poteva più degli intrighi dei Clinton. E quella mia, secondo cui perse perché Donald Trump era irresistibile, per un elettorato che vuole candidati che gli somiglino e lo assolvano dalle sue mancanze rispecchiandolo.

Adesso che l’entusiasmo per Harris-Walz sembra la copia carbone di quello del 2016, e opinioniste incredibilmente pagate per capire il mondo parlano già della Harris come della prima donna presidente, adesso ho il sospetto che l’unica vera chance sia la balena. Non un approccio che dica «siamo madri, siamo figlie, siamo abituate a sopportare le balene sul tettuccio: votateci»; ma uno che dica: siamo meno sceme di loro, we’ve been around the block senza cadaveri in macchina, votateci per contenere i danni e non viaggiare coi sacchetti in testa.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter