Se un influente miliardario saudita impegnasse il proprio nome e le proprie sterminate sostanze per diffondere in Occidente il verbo wahabita e diramasse via social bellicosi comunicati strategici, corredati da impressionanti fake news, circa l’inevitabilità della guerra santa nel Regno Unito dilaniato dalle rivolte antislamiche, c’è da credere che le misure repressive immediatamente adottate dal governo di Sir Keir Starmer non incontrerebbero le riserve e le obiezioni di chi oggi, da destra, accusa i laburisti inglesi di attentare al libero pensiero del mahatma digitale del teppismo brexiter e facoltoso impresario del caos contro la democrazia britannica.
Anzi, c’è da credere che in tal caso non solo i suoi difensori, ma lo stesso Elon Musk accuserebbero il governo inglese di mollezza e di buonismo e ribalterebbero sulla minaccia islamista la responsabilità delle azioni compiute dagli ultrà del genio razziale britannico e dagli spregiatori della società aperta, traendo dalla propaganda incendiaria del simil-Musk wahabita la conferma del proprio sospetto circa la sostenibilità delle democrazie multi-etniche e multi-religiose.
D’altronde, a parti rovesciate, ci sarebbe chi a sinistra (in Italia, ma pure nel Regno Unito) ravviserebbe nella repressione della resistenza politico-culturale jihādista un eccesso di prevenuta cautela islamofoba. Sono gli stessi che non si peritano di considerare i propositi di liberazione della Palestina «dal fiume al mare» una legittima licenza poetica della causa antisionista, di giustificare le lugubri perorazioni necrofile delle piazze pro-Pal come un’esuberante ma comprensibile reazione al bellicismo israeliano e di considerare Chef Rubio un compagno che sbaglia nella misura, ma non nella sostanza.
La riflessione circa i rischi per la stabilità delle istituzioni democratiche derivanti da fenomeni infodemici, in parte spontanei e in parte guidati, di polarizzazione mediatica, di radicalizzazione politica e di alienazione cognitiva è senza dubbio uno dei problemi più grandi e complicati che hanno davanti i paesi liberi, stretti tra l’esigenza di impedire che il cancro politico autoritario si impadronisca del loro sistema immunitario e usi delle libertà contro la libertà e delle garanzie democratiche contro la democrazia e la necessità di preservare i fondamenti dello stato di diritto dall’invadenza di qualunque proclamata ragion di Stato.
Si è ancora molto lontani dal trovare una formula per impedire, allo stesso tempo, che il free speech diventi il cavallo di Troia degli invasori e che il rischio dell’invasione diventi l’alibi per una limitazione arbitraria e irragionevole del free speech. È peraltro assai dubbio che questa formula possa essere definitiva, perché le norme giuridiche non sono affatto l’infrastruttura dell’evoluzione del sistema della comunicazione – che media la diffusione di tutto: del sapere e dell’ignoranza, della tolleranza e del pregiudizio, del rispetto e della violenza – ma devono al contrario adattarsi ex post alle sue trasformazioni e alle sue potenziali minacce.
La cosa più grave però non è che non si sia ancora arrivati alla soluzione, ma che ci si ostini a non vedere il problema, quando questo non coincide con la faccia degli altri. Come sempre, quando davvero sulla democrazia incombono i più gravi rischi esistenziali, ci si persuade che i problemi e le soluzioni non stiano nelle regole, ma negli uomini e che quindi – in questo caso – non ci sia troppo da discutere e cavillare su quali siano le forme e i limiti in cui possa esprimersi il pensiero contro, semmai quali di questi pensieri siano ammissibili e quali no, quali meritino tutela e quali censura, quale pezzo di umanità meriti di entrare nella polis dei diritti e quale invece di restarne esclusa.
Proprio questo scivolamento dall’ethos politico-costituzionale all’ethnos ideologico-razziale trova in questi giorni una spettacolare manifestazione nello stracciamento di vesti della destra moralmente domiciliata tra il Cremlino e Mar-a-Lago a proposito del caso Musk. D’altra parte, la difesa della guerra ibrida in nome del free speech è non da oggi il cavallo di battaglia della malafede libertaria dei nemici dell’Occidente.