Tema caldoL’energia geotermica prova (con fatica) a uscire dalla nicchia

Il decreto Fer 2 e il Pniec hanno dedicato più attenzione all’energia del calore nel sottosuolo della Terra, ma potrebbe non bastare. Nel frattempo, servono fondi in grado di ridurre i rischi in carico agli operatori del settore e incoraggiare attività efficaci ed efficienti anche in termini ambientali

Una centrale geotermica a Nesjavellir, in Islanda (Johann Kristjonsson / Flickr)

Pochi giorni prima di Ferragosto è entrato in vigore il cosiddetto decreto Fer 2, il provvedimento a supporto della realizzazione di impianti energetici da fonti rinnovabili «innovativi o con costi di generazione elevati». Rientrano in questa definizione l’eolico offshore, più complesso di quello a terra; il fotovoltaico galleggiante in acqua; il solare termodinamico, che trasforma il calore in elettricità; il biogas, ottenuto dalla fermentazione degli scarti organici; il moto ondoso e le maree. 

Tra le tecnologie incentivate dal decreto ci sono anche quelle per la geotermia, una fonte rinnovabile con una lunga storia in Italia – la prima centrale geotermica al mondo fu quella di Larderello, vicino Pisa, nel 1911 – e con un potenziale elevato, ma che il nostro Paese utilizza poco: a giugno le rinnovabili hanno coperto oltre la metà della domanda elettrica nazionale, però il geotermico ha contribuito con una quota del tre per cento appena, contro il quarantasei per cento dell’idroelettrico e il trenta per cento del fotovoltaico, dicono i dati di Terna.

La geotermia, in verità, è trascurata a livello internazionale – vale lo 0,2 per cento della fornitura globale di elettricità, secondo BloombergNEF –, ma la transizione ecologica potrebbe darle l’occasione per espandersi. Sfruttando le acque e i vapori provenienti dalle sorgenti di calore nel sottosuolo della Terra, le centrali geotermiche producono infatti elettricità in maniera continuativa e a zero emissioni di gas serra: due qualità molto apprezzate per decarbonizzare il mix di generazione elettrica e per bilanciare la presenza crescente del solare e dell’eolico, che dipendono dal meteo e da sistemi di stoccaggio ancora molto costosi.

Ci sono dei motivi, tuttavia, se quella geotermica è un’energia “di nicchia”: i principali sono i vincoli geologici all’accesso alla risorsa e gli alti rischi iniziali di investimento che gli operatori devono assumersi. Se infatti il potenziale ventoso e solare di un’area è piuttosto semplice da stabilire, lo stesso non si può dire del potenziale geotermico perché la risorsa si trova sottoterra e va raggiunta perforando il terreno; solo dopo l’esplorazione si può avere conferma se la resa effettiva coincide con quella stimata.

Il decreto Fer 2, annunciato ben sei anni fa, prevede degli incentivi per gli impianti geotermoelettrici tradizionali a basse emissioni di ammoniaca e per quelli a emissioni nulle che reiniettano i fluidi nelle formazioni di provenienza: nel primo caso la tariffa di riferimento è di cento euro al megawattora, nel secondo di duecento euro. L’accesso agli incentivi «avviene attraverso la partecipazione a procedure pubbliche competitive, bandite dal Gse nel quinquennio 2024-2028, in cui vengono messi a disposizione, periodicamente, contingenti di potenza»: il contingente per il geotermico tradizionale con innovazioni è di duecentocinquanta megawatt (di cui cento megawatt per i nuovi impianti e centocinquanta megawatt per i rifacimenti), mentre per il geotermico a emissioni nulle è di sessanta megawatt. Per fare un paragone, all’eolico offshore sono stati riservati tremilaottocento megawatt con una tariffa di centottantacinque euro a megawattora. 

Per provare a capire quale sarà l’evoluzione del settore geotermico italiano nei prossimi anni è utile guardare, oltre al decreto Fer 2, anche al Pniec, il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, cioè il documento che fissa gli obiettivi energetici al 2030. Vi si legge che l’Italia «è tra i leader europei» nella geotermia, «con una potenza nominale superiore a novecento megawatt e una produzione elettrica annua di circa sei terawattora», e che «esistono competenze industriali e scientifiche avanzate sia in ambito geologico sia per quanto attiene alla conversione dell’energia». 

Il nostro Paese intende arrivare al 2030 con una capacità installata da fonti rinnovabili di centotrentuno gigawatt (a fine 2023 la potenza installata era di sessantasei gigawatt). A fare la parte del leone saranno il solare e l’eolico, con settantanove gigawatt e ventotto gigawatt rispettivamente, mentre il geotermico avrà una fetta ben più piccola: un gigawatt. 

Ciononostante, il Pniec dedica comunque una certa attenzione alle nuove tecnologie geotermiche. Si parla ad esempio di promuovere lo sviluppo dei sistemi “supercritici” (permettono di raggiungere le risorse situate a grandi profondità, intorno ai dieci chilometri, e dunque non accessibili con i metodi attuali, che si fermano a tre) e di quelli “a circuito chiuso” (dove il fluido circola continuamente tra la superficie e le rocce del sottosuolo, eliminando la necessità di sfruttare le falde acquifere). 

Nel piano vengono poi menzionati i progetti per l’accumulo sotterraneo di energia in forma di calore e le sperimentazioni sull’estrazione di materie prime critiche dai fluidi geotermici: a nord di Roma, per esempio, il sottosuolo è ricco di acque salate calde a elevata concentrazione di litio, un metallo fondamentale per la produzione delle batterie. 

Il Pniec, infine, affronta anche la questione degli alti costi iniziali dei progetti geotermici e dei grandi rischi di investimento affrontati dalle aziende: un’esplorazione su cinque fallisce, in media. Per mitigare questa situazione, dunque, «si ritiene […] opportuno prevedere l’inserimento nel quadro normativo nazionale di un apposito fondo di garanzia per la geotermia in analogia di quanto già adottato in Francia funzionale a ridurre il rischio in carico agli operatori mantenendo al contempo un adeguato incentivo sugli operatori ad operare nel rispetto dei principi di efficienza ed efficacia».

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