La cultura materiale dell’enogastronomia Dieci anni senza Stefano Bonilli

Morto nella notte tra il 3 e 4 agosto di dieci anni fa, il fondatore del Gambero Rosso ci ha lasciato un insegnamento fondamentale per affrontare il giornalismo enogastronomico con maggior consapevolezza. Lo ricordiamo con le parole di chi ha lavorato a stretto contatto con lui

Stefano Bonilli

Correva l’anno 2014 quando la penna di Stefano Bonilli ha smesso di scrivere. Il mondo della scrittura nel quale ha iniziato a muovere i primi passi aveva ancora la carta come supporto, riviste e guide come strumenti, giornalisti e gastronomi Doc gli autori. Il suo messaggio, ben lungi dall’essere polveroso, ha vissuto la smaterializzazione della comunicazione e, dopo aver lavorato a Il Manifesto e fondato il progetto Gambero Rosso, prima inserto e poi rivista autonoma, è approdato quasi esclusivamente su web. Qui pioneristicamente Bonilli aveva aperto un blog di cucina, Papero Giallo, agli albori del ventunesimo secolo e sarà sulla rete che si concentrerà dal 2008, lasciata non senza traumi la sua creatura del Gambero.

Alla conquista di nuovi spazi di divulgazione, non ha tralasciato nemmeno l’etere con la creazione del canale tv digitale del Gambero. Curioso, vulcanico ed esploratore di nuovi modi di comunicare, Bonilli non si ferma mai e nel 2011 fonda Gazzetta Gastronomica, rivista online con numeri speciali cartacei, come in un flusso senza soluzione di continuità dalla carta alla rete e viceversa.

In anticipo su molti temi e modi di lavorare, il primo a disegnare le copertine del Gambero col Macintosh ad esempio, come ricordava lui stesso. Gambero Rosso è stata sicuramente la sua creatura che più ha lasciato il segno in quella che chiamava «cultura materiale dell’enogastronomia». Una vera fucina di spunti, attuali ancora oggi, e al tempo stesso bottega giornalistica di penne gastronomiche.

Se provassimo a sfogliare una manciata di numeri del Gambero datato 1990, usciva in edicola il primo martedì del mese assieme al quotidiano, troveremmo articoli su pagamenti elettronici, crisi degli istituti alberghieri, problemi dell’ospitalità made in Italy. E ancora reportage sui mercati generali di Milano e Roma, il boom della passione per i ristoranti e analisi comparate di prodotti (dalle passate di pomodoro alla pasta all’uovo), per una rivista che oltre a fare divulgazione del sapere gastronomico fosse anche dalla parte del lettore. Senza tralasciare l’estetica, seducente, della pubblicazione, merito del contributo di uno dei padri della grafica italiana, Piergiorgio Maoloni, e grazie anche ai disegni di matite d’autore (Manzi, Ghermandi, Carpinteri, Trigo) con quel suo grande formato come altri magazine all’epoca, esplodeva visivamente tra le mani: immagini e testi dialogavano in copertina e su tutte le pagine.

All’indomani della morte di Bonilli i commenti raccolti online dal Gambero Rosso vedevano la massiccia presenza di giornalisti pronti a tributargli un debito di riconoscenza professionale. Come spesso accade con le persone di carattere era diretto e poteva non piacere: già dieci anni fa dalle pagine di Papero Giallo si scagliava contro quegli articoli che creano classifiche definitive per attirare click: «Il bello è che non sono i dieci migliori di qualcosa, ma solo una scoreggia messa lì come un’esca per attirare interventi».

E poi ancora forse il tema dei temi: i criteri e le criticità per costruire una guida (e una critica) che sia visitata, come amava dire, e non assemblata, frutto cioè di esperienze reali a quella tavola che presuppongono anonimato, pagamento del conto e un budget a coprire le spalle del povero redattore.

Stefano Bonilli, foto di Maurizio Camagna

Giornalista e comunicatore, forse prima ancora che gastronomo, efficace nella sintesi: «Polpetta o sifone?» era il suo amletico interrogativo gastronomico per sintetizzare la contrapposizione tra tradizione e contemporaneità. Il suo stile online era fatto di post narrativi che invitavano alla lettura. Un blog in cui era interessante leggere anche i commenti e le risposte, perché anche lì continuavano i contenuti. Pungente senza mai demolire, schietto e armato di tanto buonsenso: «Le guerre di religione per una ricetta sono ormai sorpassate».

E se la penna si era spostata dalla carta stampata alla pagina web, il suo luogo fisico di lavoro – oltre alla scrivania di casa – era diventato un locale, o meglio un bancone, dove sedersi, mangiare, raccogliere spunti, bere, chiacchierare: Roscioli. Può esistere un luogo di lavoro e al tempo stesso di piacere più desiderabile per un giornalista gastronomo? In assenza di una vera redazione di meglio non si può chiedere; in dodici anni di vita di Roscioli, come Bonilli stesso calcolò, tra pranzi e cene il totale era di circa ottocento, chapeau.

Per celebrare al meglio questo decennale dalla sua scomparsa, chi meglio della voce di colleghi, amici, collaboratori può essere utile per riscoprire questa penna del gusto?

Abbiamo ascoltato persone differenti con percorsi distanti tra loro e un po’ ci è sembrato di sentire una persona sola che ricorda Stefano (dopo aver ascoltato racconti professionalmente e umanamente significativi, viene quasi naturale traslare dal cognome al nome).

L’uomo e il giornalista hanno lasciato un ricordo ben definito di sé.

Marco Bolasco, giornalista enogastronomico autore di libri e direttore scientifico di Giunti Editore, negli anni Novanta, fresco di laurea, approda grazie a uno stage al Gambero. Era ancora una piccola realtà e il primo impatto tra Marco e Stefano racconta molto dell’entusiasmo spontaneo di Bonilli verso il nuovo e i giovani: «Mi disse “sì sì, tu vieni, e lo stage lo fai nella mia stanza”». Dallo stage, dove si occupava di internet, alla proposta di lavoro come autore del canale tv del Gambero il passo è breve e dà il là a una collaborazione di tredici anni.

Marco Bolasco, foto di Marco Cenci

Bolasco ricorda la figura di Bonilli innanzitutto come quella di un innovatore e di un professionista col fiuto da giornalista, prima degli altri ha capito che quello del cibo era un tema trend topic diremmo oggi. L’eredità professionale che ha ricevuto in quegli anni la descrive come «una grande scuola di giornalismo enogastronomico laico, questo mi ha trasmesso e unisce ancora oggi persone che hanno lavorato con lui». Professionisti che rivedendosi ritrovano un comun denominatore, come studenti che hanno frequentato la stessa università. Al tempo stesso il rammarico di Bolasco è quello di non ritrovare oggi quella forza e quella visione che c’era nel Gambero di Bonilli. In tempi non sospetti in cui di birra artigianale non si parlava, Marco già coltivava questa passione come interesse personale. Fu sufficiente confidarlo a Bonilli che subito lo inviò da Menabrea, un piccolo marchio italiano all’epoca che stava crescendo, di lì a poco una birra finì in copertina.

Nel 2005 approda alla cura della Guida dei ristoranti, forse il più giovane in questo ruolo: «Un meccanismo sano, non pubblicavo se non c’era la fotocopia di un conto pagato» ricorda Marco. «E se errori ci sono stati, sono sempre stati in buona fede». Una Guida cofirmata Bonilli/Bolasco ma senza mai la minima ingerenza da parte della direzione del Gambero, assicura Bolasco. Un trentenne che ha osato castigare Vissani con un giudizio meno benevolo che in passato; Bonilli, oltre a dargli fiducia, da buon direttore prese anche sulle sue spalle la responsabilità di quella scelta.

E oggi?  «Oggi un cuoco importante è molto più importante di un giornalista importante – prosegue Bolasco – e se Stefano fosse tra di noi forse si occuperebbe di altro, sicuramente sarebbe stanco di tante cose e avrebbe in mente strade nuove, ad esempio su Instagram avrebbe creato qualcosa di molto divertente».

Elisia Menduni è antropologa, giornalista, instancabile scrittrice, amante e curiosa di cibo, autrice di diversi volumi. L’incontro con Bonilli è stato del tutto fortuito: da una propria agenzia di comunicazione, Elisia si ritrova praticamente a sua insaputa iscritta a un master di giornalismo enogastronomico del Gambero e arriva prima alle selezioni.

Elisia Menduni

Da una parte la sua esperienza pregressa l’aveva resa quasi più insegnante che allieva, dall’altro fu notata da Bonilli che le propone di scegliere in libertà cosa fare per rendersi utile in un’impresa ancora agli inizi.

Uno dei campi che ancora Elisia non aveva esplorato era quello televisivo e così entra come autrice nel canale tv del Gambero assieme a Bolasco. Considera Bonilli il suo maestro e sé stessa la sua spalla che l’ha seguito per anni nella quotidianità, momenti difficili inclusi, fino ad aiutarlo a fare gli scatoloni il giorno del licenziamento dal Gambero in seguito al cambio di proprietà. Quella mattina del 2008, ricorda Elisia, alle undici era già fuori e al Gambero non ci metterà più piede. Il trasloco affidato non a un furgoncino qualunque ma a quello di Roscioli, un che di gastronomico anche qui, in quello che Elisia definisce un vero trauma.

Meno di un anno dopo anche lei uscirà dal Gambero per seguire Bonilli nell’avventura di Gazzetta Gastronomica: «Eravamo completamente liberi, senza sponsor, senza pubblicità, organizzando eventi, sviluppando temi nuovi rispetto a Gambero e con un linguaggio da blog». Un’esperienza all’insegna della libertà che per Elisia diventa chiave di volta, non sempre facile, delle sue scelte professionali successive. E in fondo anche l’essenza dell’insegnamento di Bonilli: la libertà.

Un’altra cosa che Elisia ha appreso è il senso della storicità delle cose, anche nella quotidianità della propria esperienza: «Vai in un ristorante per fare una scheda di quel locale, è un disastro, non importa, ci vai un’altra volta. Se la storicità di quel posto non racconta quell’esperienza negativa devi capire che cosa è successo». Era avanti di dieci anni e forse proprio per questo oggi è attuale, ricorda Elisia.

Stefano Bonilli, foto di Elisia Menduni

Facendo forza su sé stesso aveva iniziato un po’ a prendere le distanze dal fine dining o comunque da contrapposizioni tra alto e basso in cucina, contro qualunque snobismo. Una sorta di ritorno alle sue origini in Slow Food e alla semplicità di un cibo popolare.

A latere della chiacchierata con Elisia la riportiamo in via dei Giubbonari a Roma (leggi Roscioli): «Amava la dolce vita nel vero senso della parola. Aveva i suoi forti riti quotidiani ed essere entrata nei suoi rituali è stato un grande dono. Dopo la lettura dei giornali c’era l’incontro con me e quindi Roscioli: Alessandro e Pierluigi erano praticamente due suoi figliocci. Essere circondati da tutti quei prodotti non solo era stimolante dal punto di vista gastronomico, ma apriva tutta una serie di finestre intellettuali. Per Gazzetta Gastronomica Roscioli è diventato davvero una redazione». E non a caso Elisia proprio su Roscioli ha scritto un libro, un progetto che già Bonilli aveva abbozzato e al quale poi Elisia ha dato forma col suo stile.

Se oggi fosse qui salverebbe solo alcune penne, alcune pagine – prova a immaginare Elisia – ma per il resto sarebbe molto critico in generale col sistema del giornalismo enogastronomico attuale. Avrebbe spinto anche a cambiare ambito. Come nel percorso stesso di Elisia, da agenzia di comunicazione al giornalismo, fino all’ulteriore step, approdata oggi al ruolo di supporto di chef e ristoranti con un’agenzia creativa, spinta anche da Bonilli, che si è rivelato un continuo stimolo personale e professionale anche dopo la sua scomparsa.

Annalisa Barbagli, prima ancora di raccontarci la sua storia al Gambero ci tiene a sottolineare il legame affettivo con Stefano, una dichiarazione d’amore professionale senza se e senza ma: «Una vera gioia lavorare con lui». Anche oltre il Gambero ha continuato a collaborare con Bonilli per l’editore Giunti, scrivendo libri. È stata per anni la donna delle ricette al Gambero, una solida e affidabile presenza nel gestire ingredienti e procedimenti.

Annalisa Barbagli

Il suo ingresso è avvenuto già nel primo anno di vita del progetto, e con il ruolo di mettere ordine nei conti, quando il Gambero era ancora più grezzo che rosso, soprattutto dal punto di vista amministrativo-contabile. Bonilli giornalista, narratore, più che contabile «aveva nella tasca destra le cose da pagare, nella sinistra quelle pagate» chiosa Annalisa con una risata.

Dopo un anno però l’ordine non bastava più, e Annalisa non era nemmeno lei una contabile, si sarebbero dovuti separare a quel punto, ma Bonilli sapeva della sua passione per la cucina, rilancia la loro collaborazione con l’idea di una rubrica di ricette sul Gambero. Oggi può sembrare una cosa normale ma all’epoca parlare dentro Il Manifesto di ricette era una forte novità. Da lì inizia un percorso di lavoro e di formazione: «Mi sono messa anche io a studiare, con una sorella nutrizionista che mi ha dato qualche dritta, ma poi Stefano mi ha fatto anche viaggiare, per scoprire le varie cucine tipiche regionali e di questo lo ringrazio».

A quell’epoca i cuochi frequentavano molto il Gambero, inviando anche materiale sul quale Annalisa interveniva per renderlo più pubblicabile; col tempo fece anche recensioni di libri di cucina: «Stefano ti buttava nell’acqua se sapevi nuotare bene sennò imparavi. Era uno che stava dietro a tutte le novità, Adrià per esempio, però aveva anche il piacere di ricordare le radici della cucina e questo voleva da me sempre. E quando gli chiedevo conferme mi rispondeva “non avrei saputo fare di meglio” un po’ serio e un po’ ironico».

Torniamo a parlare di ricette metaforicamente: chiediamo ad Annalisa quale fosse l’ingrediente principale di Bonilli, risponde senza esitazione: «L’intelligenza, e la sua ricetta riusciva perché aveva capito il momento, preveggente per tante cose, e poi… era anche simpatico, porca miseria, mi manca, mi manca ancora!».

Fabio Parasecoli ha avuto anche lui un incontro fortuito con Bonilli, grazie a uno stage, e inizialmente avrebbe dovuto occuparsi di questioni amministrative, anche se già scriveva di politica internazionale per diverse testate in giro per il mondo. Il percorso in qualità di penna gastronomica inizia con un’idea di Stefano di fargli scrivere recensioni di ristoranti etnici, diremmo sfruttando il Dna internazionale di Fabio. «Dandomi fiducia Stefano mi ha poi mandato a fare pezzi più impegnativi in Inghilterra, in Francia, in Spagna negli anni Novanta».

Fabio Parasecoli, foto di Duccio Battistrada

La svolta arriva nel ’98 quando Bonilli gli propone di andare a New York a gestire la sede del Gambero, un’altra prova di fiducia per un impegno all’estero durato fino al 2009, anno in cui Fabio cambia carriera intraprendendo quella di docente universitario, oggi professore ordinario di Food Studies negli Stati Uniti.

Al sentimento di fiducia Fabio aggiunge anche «un senso di rischio, perché si facevano cose che prima non erano ancora state fatte. Ti guardava un po’ dubbioso, ma poi si buttava il cuore oltre l’ostacolo. Un periodo interessante e anche non facile quando la rivista è diventata autonoma: “Stiamo andando a vista come una nave pirata” mi diceva a volte». L’attualità di Stefano per Fabio sta proprio nel fatto di aver pensato al cibo non solo in termini di buono o cattivo o in termini di chef star, ma come fatto di costume, sociale e culturale.

Quattro voci differenti che raccontano i tratti distintivi dell’uomo e del giornalista: intelligenza, ironia e fiuto per temi e persone, non senza un pizzico di incoscienza forse. Mai superficialità ma coraggio piuttosto, per provare nuovi percorsi con poche certezze all’orizzonte. Riscoprirlo, rileggerlo è forse l’invito più sincero che ci sentiamo di fare e l’omaggio più vero alla sua memoria.

Da sinistra Raffaella Prandi, Stefano Bonilli, Marco Bolasco, Andrea Petrini, Elisia Menduni, foto di Bob Noto

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