Precondizione per la decifrazione della destra al potere è risolvere la questione dei suoi rapporti con il fascismo, su cui in prima battuta durante la campagna elettorale – e anche dopo – si è concentrato il fuoco di fila delle opposizioni, soprattutto da parte di politici, giornalisti e intellettuali. Infatti, se FdI fosse collegabile direttamente al fascismo sarebbe di semplice interpretazione: ma il fascismo si rivelerebbe in tal caso un’ideologia e una forma politica di ben lungo corso, capace di passare attraverso una devastante sconfitta politico-militare e anche attraverso settanta e più anni di democrazia.
L’eventuale collegamento al fascismo non necessariamente implica la tesi che FdI sia un partito apertamente neofascista; in realtà la questione fascista si presenta anche in modo più sottile, come dubbio se l’approdo atlantico e ancor più l’ambientamento nell’universo del conservatorismo siano il frutto di una consapevole evoluzione oppure solo travestimenti tattici, e quindi reversibili, di una cultura politica che resta pur sempre illiberale, autoritaria, e in ciò riconducibile a una non superata matrice fascista.
Il fascismo è certamente il fantasma che si aggira sulla vicenda storica della destra politica in Italia, benché di destra propriamente non sia stato – fu qualcosa di nuovo e di ibrido. Di fatto, dopo la sua uscita di scena è stato oggetto di nostalgia per una fascia di opinione collocata all’estrema destra nello schieramento parlamentare, oscillante fra pulsioni reduciste antisistema (soprattutto al Nord), spinte fino alla ribellione eversiva, e posizioni reazionarie, in stile legge e ordine, di ceti conservatori meridionali decisamente anticomunisti che, se non dottrinariamente ostili alla democrazia, certamente non ne erano entusiasti. In quanto raccoglieva anche i reduci di Salò questa destra – portatrice di parole d’ordine quali “non rinnegare e non restaurare” – era esterna alla legittimità repubblicana, originariamente antifascista (il Movimento sociale italiano fu fondato nel dicembre del 1946 e pertanto non si presentò alle elezioni dell’Assemblea costituente, risultando così anche materialmente, oltre che idealmente, estraneo all’elaborazione della Costituzione); ma al tempo stesso era formalmente nel suo insieme interna alla legalità – almeno in prevalenza, sia pure con significative eccezioni.
Nonostante una sofferta svolta in senso “occidentale” alla metà degli anni Cinquanta, il Msi restava prigioniero nel proprio ghetto identitario almeno fino a Roma (il che non gli impediva di essere al proprio interno straordinariamente diviso e rissoso) – un partito di “esuli in patria”, perfetto capro espiatorio di un senso di colpa nazionale mai compiutamente elaborato – e, nonostante fosse anche il partito del “doppiopetto” oltre che dello “scontro fisico”, non poteva certo governare il Paese, soprattutto dopo che i fatti dell’estate del 1960 convinsero la Democrazia cristiana a non utilizzarlo ulteriormente come saltuario appoggio esterno in parlamento. Poteva però partecipare alla vita politica e sociale, aveva incarichi amministrativi in parecchie realtà del Mezzogiorno, ed esercitava nel proprio recinto una notevole attività editoriale e culturale.
Portare al governo il grosso del conservatorismo sociale e antropologico italiano, non teorico né dogmatico, ma storicamente sedimentato su posizioni ostili alla sinistra, fu però il compito politico della Dc, che, guidata prevalentemente da cattolici liberali o democratici, soprattutto dagli anni Sessanta in poi volgeva il voto moderato prevalentemente verso il centrosinistra. Perché la destra entrasse formalmente nella legittimità repubblicana si è dovuto dissolvere l’ordine politico del dopoguerra ed è dovuta cadere la doppia conventio ad excludendum che aveva dato forma alla prima democrazia italiana: l’esclusione originaria del fascismo e quella – successiva, politica – delle forze che si definivano comuniste.
Il crollo del comunismo, la sparizione dei partiti della Prima repubblica, travolti dall’inchiesta giudiziaria Mani pulite, hanno mobilitato le posizioni in campo; l’erede dei voti della Dc, cioè Silvio Berlusconi, ha dovuto sdoganare la destra per opporsi alla “gioiosa macchina da guerra”, la coalizione di centrosinistra, in cui l’erede del Pci, il Pds (Partito democratico della sinistra), aveva un ruolo centrale.
Per presentarsi alle elezioni non solo a scopo testimoniale ma per vincerle – il sistema elettorale e politico era divenuto dal 1993 maggioritario e bipolare – la destra dovette abbandonare, almeno pubblicamente, ogni riferimento teorico e pratico al fascismo: dovette passare cioè dal neofascismo e dal post-fascismo (le posizioni, intrecciate e spesso non chiaramente definite, che il Msi aveva assunto e maturato nei decenni repubblicani) alla rottura con il fascismo e, con Gianfranco Fini, a qualche riconoscimento del ruolo storico e politico dell’antifascismo. Dovette insomma non solo accettare fattualmente la sconfitta storica dell’esperienza fascista che si collocava alle radici della destra, ma tagliare quelle radici: la frase sul fascismo come “l’epoca del male assoluto”, pronunciata da Fini in Israele nel novembre del 2003, in relazione soprattutto alle leggi razziali del 1938, è l’esito di un processo iniziato anni prima. Un processo che non poteva limitarsi a denunciare razzismo e guerra come errori del fascismo (posizione ovvia e riduttiva) ma che doveva investire l’intera esperienza del ventennio.
Fini – che tuttavia nel marzo del 1994, mentre partecipava alla coalizione di destra approntata per le elezioni di quell’anno, ancora definiva Mussolini “il più grande statista del secolo” – nel gennaio del 1995, celebrando a Fiuggi il congresso di scioglimento del Msi e il primo congresso di Alleanza nazionale, aveva appunto fatto uscire la destra politica dalla “casa del padre”, portandola almeno ufficialmente su posizioni nazionalconservatrici (e pagando il prezzo della scissione di Pino Rauti).
Così la destra post-missina prese parte alla vita politica della Seconda repubblica come socio minore, in alleanza con la destra liberalpopulista di Berlusconi. Un’alleanza che sfociò nella confluenza delle due destre nel Popolo delle libertà, partito fondato ufficialmente nel 2009 ma annunciato da Berlusconi dal “predellino” nel 2007 e presentatosi ancora come alleanza alle elezioni (vinte) del 2008. Una coesistenza molto difficile per gli ex di An (scioltasi appunto nel 2009), che al contatto diretto con Berlusconi si divisero: mentre una parte (la destra sociale di Francesco Storace) non era neppure entrata nel Popolo delle libertà, lo stesso Fini – sempre meno in sintonia con il proprio partito – ne uscì già nel 2010 (a livello parlamentare) con una formazione di centrodestra (“Futuro e libertà”, formalizzata in partito nel 2011), duramente sconfitta alle elezioni del 2013.
Alla diaspora della destra ex An appartiene anche la fondazione di Fratelli d’Italia, nel 2012 – l’anno che segna il punto più basso della fortuna politica della destra nella Seconda repubblica, dopo la caduta del terzo governo Berlusconi nel 2011 –, un partito che nel 2013 riesce fortunosamente (come “migliore perdente” della coalizione di destra) a entrare alla Camera con nove deputati. Dai seicentosessantamila voti del 2013 (raddoppiati l’anno dopo alle europee) FdI passa nel 2022 a sette milioni; un incremento di più del mille per cento in meno di dieci anni – di più del decuplo, insomma – non può essere sottovalutato nemmeno nei nostri tempi di estrema volatilità dell’elettorato: è l’esito di un processo che merita una interrogazione e una spiegazione. Un’era geologica è passata da quando Giulio Andreotti definiva quelli dati al Msi “voti in libera uscita”, che presto sarebbero rientrati nella accogliente caserma democristiana: è necessaria una riflessione più articolata, evidentemente, perché nel frattempo il grande centro moderato che alimentava la Balena bianca è scomparso anche sociologicamente.
Né d’altra parte sembra sufficiente parlare semplicemente, per FdI, di ritorno del fascismo – che, forse, non se ne sarebbe mai andato – o etichettare questa forza politica come “fascismo democratico”, come il “fascismo d’oggi”: un ossimoro che ha forse una presa mediatica ma che rivela anche una debolezza analitica. FdI non è il fascismo del XXI secolo, ma è la destra del XXI secolo.