Pbs. Tre lettere preoccupano il governo Meloni al ritorno delle vacanze estive. Ovvero il Piano strutturale di bilancio, grande novità della riforma del Patto di stabilità europeo. La nuova governance economica prevede che entro il 20 settembre i Paesi presentino un piano dettagliato con le politiche economiche e fiscali per i prossimi quattro o cinque anni, con un percorso di riforme fino a sette anni. Esercizio arduo per la politica italiana, abituata a promesse e bonus approvati alla vigilia delle tornate elettorali.
Il 30 agosto sono in agenda la prima riunione di maggioranza e il primo Consiglio dei ministri post ferie. E va trovato un accordo non facile tra i partiti dell’esecutivo su un programma più lungo, che dovrebbe in teoria svelare la strategia del governo almeno fino a fine legislatura. Finora sia il Def (Documento di economia e finanza) sia il Dpb (Documento programmatico di bilancio) da inviare a Bruxelles avevano durata annuale, con la possibilità di correzioni in corsa negli anni successivi.
La Banca d’Italia, nell’audizione di aprile al Parlamento all’interno dell’indagine sulla riforma di programmazione economica, aveva già criticato la tradizionale «miopia» della politica di bilancio italiana, abituata al rinvio continuo del risanamento dei conti pubblici, con misure che non tengono conto dei riflessi economici e decisioni di aumento della spesa a fronte di risparmi solo temporanei. Adesso la strategia all’italiana diventerà ancora più incompatibile con le nuove regole dell’Unione. E anche se c’è chi spera in qualche concessione last minute da parte di Bruxelles, i margini di manovra dei partiti si restringono.
In quasi due anni di governo, da Palazzo Chigi sono arrivati perlopiù provvedimenti estemporanei. Il taglio del cuneo fiscale e l’accorpamento delle aliquote Irpef nella scorsa legge di bilancio avevano risorse economiche solo per il 2024. E a ridosso delle elezioni europee, sono state annunciate una nuova social card – che però partirà solo da settembre – e un provvedimento per tagliare le liste d’attesa nella sanità, addirittura senza coperture finanziarie. L’unico piano pluriennale con cui l’esecutivo si è confrontato è il Pnrr, che prevede passi e scadenze serrate imposte proprio da Bruxelles.
Il Pbs ora sarà il documento più importante per la legislatura, da cui dovrebbero emergere gli obiettivi di Meloni e alleati. Non solo in termini di spesa e riduzione del debito, ma anche di riforme strutturali per rilanciare la crescita. Dalla pubblica amministrazione alla concorrenza, fino alla giustizia. Con un calendario definito che sarà guardato con molta attenzione dai mercati e dagli investitori per capire cosa avverrà nei prossimi anni. E poiché il governo Meloni è già in carica da quasi due anni, il Pbs italiano al momento avrà come scadenza il 2027.
Al ministero dell’Economia si lavora al Pbs da luglio. Il ministro Giancarlo Giorgetti lo ha promesso entro metà settembre. Il testo dovrà essere prima approvato dal consiglio dei ministri, per poi essere presentato al Parlamento e infine alla Commissione europea entro la terza settimana di settembre.
È l’impegno più gravoso per la maggioranza, che non solo costringe a mettere da parte ogni fantasia politica di aumento della spesa davanti alla tragica realtà dei conti italiani, ma anche a trovare un accordo sulle riforme da attuare da qui alla fine della legislatura, superando le divisioni emerse sotto il sole di agosto tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. E forse è anche per questo che se ne parla poco. Eppure il piano non solo sarà la base della legge di bilancio del 2025, ma condizionerà pure le scelte politiche fino al 2031. Anche perché, una volta scritto, dovrà essere rispettato così com’è, tranne nei casi di entrata in carica un altro esecutivo o di eventi eccezionali come una crisi economica.
Per l’Italia – si sa – il percorso è più che accidentato, avendo chiuso il 2023 con un deficit del 7,4 per cento del Pil – il più alto d’Europa – e un debito pubblico di oltre il centotrentasette per cento del Pil. Motivo per cui è scattata la procedura di infrazione e a giugno da Bruxelles è stata indicata in via riservata una traiettoria tecnica che il governo dovrà seguire.
La novità, anzitutto, è che nel documento verrà presa come riferimento la spesa pubblica netta, cioè la spesa depurata dagli interessi sul debito pubblico, dai trasferimenti dell’Ue, dalle spese di cofinanziamento dei progetti europei e dai costi per i sussidi di disoccupazione. Nel Pbs dovrà essere inserito poi il percorso di aggiustamento di sette anni necessario per i Paesi molto indebitati come il nostro, per riportare deficit e debito entro il tetto stabilito dall’Europa. Per il deficit resta il tre per cento del Pil, per il debito pubblico il sessanta per cento del Pil.
Secondo le nuove regole, nei prossimi sette anni l’Italia dovrà seguire una riduzione costante del deficit di 0,5 punti percentuali l’anno e tagliare il debito di un punto all’anno. Il che corrisponde a un aggiustamento di bilancio di circa dieci-dodici miliardi di euro l’anno, da tirare fuori in tre modi possibili: riducendo la spesa pubblica, aumentando le tasse o facendo crescere il Pil. Ogni anno si potranno fare aggiornamenti, ma con interventi da concordare comunque con la Commissione europea a fronte di evidenze oggettive.
Proprio mentre si scaldavano i motori per il classico assalto alla diligenza della sessione di bilancio, quest’anno si dovrà invece cominciare a cambiare metodo. È un passaggio decisivo e gli spazi di manovra sono pochi. La spesa pubblica primaria italiana, di oltre mille miliardi l’anno, è difficile da comprimere. L’ex Ragioniere generale dello Stato Biagio Mazzotta lo scorso maggio ha spiegato in audizione in Parlamento che ormai da anni le leggi di bilancio incidono solo sulla «variazione al margine» della spesa statale, con l’ottantuno per cento – circa settecentotré miliardi – che se ne va per oneri inderogabili. Quindi: stipendi dei dipendenti pubblici, pensioni, sanità, istruzione e incentivi vari.
La voce più pesante sono le pensioni, che nel 2023 hanno assorbito quasi il trenta per cento (29,8 per cento) della spesa. Ora, a meno che non si vogliano fare improbabili manovre lacrime e sangue, anche questa spesa quest’anno sarà ridotta solo «al margine», bloccando le indicizzazioni come il governo ha già fatto con le ultime due leggi di bilancio e soprattutto archiviando le promesse leghiste di «cancellazione della Fornero» e approvazione della Quota 41 (per lasciare il lavoro appena raggiunti i quarantuno anni di contributi).
«Credo sia arrivato il momento di cambiare approccio», aveva detto Biagio Mazzotta prima di dimettersi dopo mesi di tensioni con Giorgetti ed essere sostituito da Daria Perrotta. «Eventuali incrementi della spesa statale dovranno essere compensati da corrispondenti riduzioni di spese […] o da aumenti di entrate. È escluso ogni margine di utilizzabilità del miglioramento del tendenziale a copertura di nuove spese o di minori entrate».
Il percorso da seguire al Mef è noto. La Ragioneria dello Stato aveva sottolineato che sarà fondamentale stabilire le priorità di spesa, in modo da finanziare le attività che abbiano buone ricadute sul tessuto economico e sociale. Anzi, aveva aggiunto: «Occorrerà rafforzare la capacità di misurare questi risultati perché essi possano costituire la base per le future decisioni di bilancio». Pure l’ufficio parlamentare di bilancio ha già richiamato i partiti a una maggiore «responsabilità nazionale» nella gestione della finanza pubblica. E la Banca d’Italia, criticando l’«insufficiente orientamento al medio periodo» e l’approccio «non abbastanza prudente» sui rischi dei provvedimenti varati per la finanza pubblica, ha sottolineato pure l’assenza di chiarezza sullo stato dei conti. «Non sempre è agevole, sulla base dei documenti ufficiali, farsi un’idea accurata dell’evoluzione dei conti tendenziali, sia in corso d’anno sia a più lungo termine», spiegano da Via Nazionale.
Tra le conseguenze del Superbonus, i flussi dei fondi europei e la fiammata inflazionistica che ha portato al rigonfiamento temporaneo delle entrate fiscali, anche per gli economisti più esperti è difficile capire come stanno davvero i conti pubblici italiani in questo momento. Dal Piano strutturale di bilancio si dovrebbe capire. O almeno si spera.