Mentre scrivo, a Diamniadio, in Senegal, si sta svolgendo il IX Forum mondiale dell’acqua (World Water Forum, wowf). Questo evento a cadenza triennale è organizzato dal Consiglio mondiale sull’acqua (World Water Council, wwc), un think tank internazionale con sede a Marsiglia fondato – nel 1996 – e guidato da Loïc Fauchon, ex amministratore delegato della Société des Eaux de Marseille, a sua volta azienda privata di distribuzione dell’acqua di proprietà del gigante mondiale Veolia Eau.
Tra i membri fondatori del wwc ci sono l’Unione internazionale per la conservazione della natura (International Union for the Conservation of Nature, iucn), l’Associazione internazionale dell’acqua (International Water Association, iwa), l’Associazione internazionale delle risorse idriche (International Water Resources Association, iwra), il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (un Development Program, unpd), l’Unesco, la Banca mondiale e la multinazionale francese Suez Lyonnaise des Eaux.
La cerimonia d’apertura del IX World Water Forum ha visto la partecipazione di capi di Stato, vertici d’azienda e politici di alto livello attorno al tema «sicurezza idrica per la pace e lo sviluppo». Nel suo discorso di benvenuto, il presidente senegalese Macky Sall ha rivolto un monito agli ospiti: Abbiamo ogni motivo per credere che, se non si interviene, la situazione non farà che peggiorare, soprattutto a causa della forte pressione demografica, della rapida urbanizzazione e delle attività inquinanti dell’industria.
Questo IX Forum mondiale dell’acqua ci offre l’opportunità di lanciare l’allarme sulla gravità della situazione, in modo che le questioni legate all’acqua restino al centro dell’agenda internazionale. Sall dipinge un quadro desolante, in cui non ci sono molte ragioni di ottimismo. Sullo stesso tenore, anche Fauchon ha lanciato un duro avvertimento, e lo ha fatto toccando alcuni degli aspetti che ho affrontato nell’introduzione: La tecnologia e in particolare il contributo del digitale non saranno sufficienti. È sicuramente necessario innovare, innovare ancora, innovare sempre; ed estrarre, trasferire, desalinizzare, riciclare e aumentare la quantità d’acqua disponibile.
È tuttavia necessario anche cambiare abitudini e comportamenti, perché solo così potremo condividere l’acqua per le persone e l’acqua per la natura. Secondo il wowf, dunque, un po’ come nel caso di Città del Capo, risolvere la crisi idrica richiederebbe sì innovazione e tecnologia ma anche azioni individuali. Fauchon si concentra sui cambiamenti tecnico-finanziari, comportamentali e manageriali piuttosto che su quelli sistemici, ma questo non dovrebbe sorprendere. Il wowf è solo una delle tante – anche se forse la più importante – grandi conferenze sull’acqua che vengono regolarmente organizzate in tutto il mondo.
Queste conferenze hanno iniziato a proliferare a metà degli anni Novanta con la fondazione del wwc, ma anche della Global Water Partnership (gwp) e dello Stockholm International Water Institute (siwi), e sono diventate una componente chiave della governance idrica mondiale. Se da un lato questi eventi spingono la politica a interessarsi ai temi legati all’acqua, dall’altro competono per attirare l’attenzione, erodendo così la legittimità percepita dei numerosi incontri sullo stesso tema organizzati da agenzie governative, organizzazioni non profit come l’iwra e l’onu e le sue agenzie.
Come spiegano Peter H. Gleick e Jon Lane, il primo Forum mondiale dell’acqua è stato organizzato dal wwc nel 1997 a Marrakech, in Marocco, in competizione diretta con il tradizionale congresso triennale dell’iwra. Ciò ha aperto la strada ai forum mondiali dell’acqua a cadenza triennale, all’Aia nel 2000, a Kyoto nel 2003 e a Città del Messico nel 2006, con un numero di partecipanti ed espositori in continuo aumento.
I grandi congressi sull’acqua tendono ad avere un focus e una portata generali, e quindi a ribadire un senso d’urgenza decontestualizzato sulla necessità di risolvere la «crisi idrica globale» senza però fornire misure specifiche e concrete per farlo. Per esempio, è difficile essere in disaccordo con i principi che ispirano la Dichiarazione di Dakar, il testo che ha chiuso il IX wowf, che auspica un «blue deal per la sicurezza idrica e i servizi igienico-sanitari per la pace e lo sviluppo». Il documento è firmato dagli stakeholder dell’evento – una serie di multinazionali, governi e alcune agenzie onu – e fa appello alla comunità internazionale perché garantisca il diritto all’acqua e ai servizi igienico-sanitari per tutti, promuova la cooperazione e assicuri una governance dell’acqua inclusiva.
La dichiarazione è in linea con quelle espresse in precedenza al termine di ogni forum dell’acqua, che tendono a «formulare un appello urgente per azioni decisive riguardo all’acqua», affermando immancabilmente che «il momento di agire è adesso». Tanto è vero che lo slogan del VI wowf, tenutosi a Marsiglia nel 2012, era Time for Solutions, «Tempo di soluzioni», e sull’homepage del suo sito campeggia la promessa di Pauline, una partecipante al forum, che si impegna a «fare la doccia invece del bagno».
Ma se la necessità di fare qualcosa è così impellente, e se questi appelli all’azione risultano ogni volta sempre più pressanti, sinceri e, in apparenza, ampiamente condivisi, come si spiega che almeno due miliardi di persone bevono ancora acqua potabile contaminata e che nel periodo che va dal 2000 al 2017 le disparità tra i più ricchi e i più poveri in termini di copertura dei servizi essenziali sono aumentate?
La portata di questo paradosso va ben oltre il campo della governance dell’acqua. Pensiamo, per esempio, a come l’ecoansia suscitata dall’Antropocene sfoci molto spesso in previsioni di apocalisse totale. Prendiamo il Climate Clock, l’orologio del clima, un cronometro presente sia online sia come installazione artistica in varie città del mondo. L’orologio mostra un conto alla rovescia, che – stando a quanto riporta il sito a inizio 2024 – terminerà nel 2029, quando «carestie, siccità, inondazioni, conflitti, sofferenze e disastri» non saranno più evitabili a meno che le società umane non riducano drasticamente le emissioni di co2 per mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia degli 1,5 °C.