Trentottomila miliardi di dollari ogni anno. È il prezzo da pagare nel 2050 per non aver fatto nulla – oggi – contro la crisi climatica. A dirlo è una recente analisi, una stima più fine delle precedenti, fatta dal Potsdam institute for climate impacts research (Pik) e pubblicata su Nature il 17 aprile 2024. Trentotto mila miliardi di dollari, invece che i circa tremila miliardi calcolati in passato. Il dato ha un enorme valore politico e sociale, perché conferma la necessità di riformare il sistema finanziario mondiale.
Nello stesso giorno dell’uscita dello studio, a Washington sono iniziati gli incontri della Banca mondiale (Bm) e del Fondo monetario internazionale (Fmi) che si svolgono ogni anno in primavera e in autunno. Un’opportunità, insieme alle riunioni del G7 a presidenza italiana e alla prossima conferenza Onu sul clima (Cop29) per avanzare nell’agenda di modifica dell’architettura finanziaria internazionale. L’obiettivo è un sistema che tenga conto del costo della crisi climatica e del principio delle responsabilità comuni ma differenziate tra i Paesi emettitori di gas a effetto serra.
Secondo alcune stime, per aiutare le Nazioni in via di sviluppo ad adattarsi al riscaldamento globale, di cui non sono storicamente responsabili, sono necessari mille miliardi di dollari all’anno. In tema di finanza climatica, dunque, le discussioni riguardano: come trovare i fondi per questi Paesi e come evitare che quelli più poveri usino troppi soldi per pagare il debito estero.
Al termine degli Spring meetings di Washington, la Banca mondiale ha annunciato che undici Stati – tra cui Giappone, Usa, Italia e altre Nazioni europee – si sono impegnati a contribuire con undici miliardi di dollari per aumentare la capacità di prestito della Bm e consentirle di assumere più rischi per le sfide globali, inclusa quella climatica. Finora, i Paesi che controllano la Bm, tra cui gli Stati Uniti, la Germania, la Cina e il Giappone, non hanno destinato somme enormi per le questioni climatiche nei Paesi in via di sviluppo, e il settore privato non è intervenuto per colmare il divario.
Alla ministeriale G7 Clima, Ambiente e Energia, che si è tenuta alle porte di Torino dal 28 al 30 aprile 2024, i Sette del forum intergovernativo hanno riconosciuto la necessità di sbloccare finanziamenti per il clima nell’ordine di migliaia di miliardi (trillions) e di superare quindi la cifra dei cento miliardi di dollari che gli Stati più ricchi si sono impegnati a fornire ogni anno ai Paesi in via di sviluppo, come stabilito alla conferenza Onu sul clima del 2009 (Cop15). La somma nella maggior parte degli anni non è stata raggiunta: il target, secondo molti esperti del settore, è sempre stato una comodità politica, piuttosto che una valutazione realistica dei costi di adattamento e mitigazione della crisi climatica.
Il 2025 sarà, però, l’anno in cui dovrà essere adottato un nuovo obiettivo globale per la finanza climatica (Ncqg, New collective quantified goal on climate finance). Se ne discuterà alla Cop29 di Baku nel novembre 2024. Al termine della conferenza Onu dovrebbe esserci un’intesa su diverse questioni: a quanto ammonterà il nuovo target economico, come distribuirlo, quanto dovrebbe provenire dal settore privato e quale dovrebbe essere il ruolo della Cina – un Paese in via di sviluppo solo sulla carta – come contributore. Nel frattempo, il G7 ha concordato che il gruppo sarà il principale finanziatore, ma che qualsiasi Stato con le risorse per farlo dovrà contribuire, così come gli enti privati.
A gestire i soldi da versare ai Paesi più poveri, che sono anche quelli più vulnerabili al cambiamento climatico, è l’Agenzia internazionale per lo sviluppo (International development association, Ida) della Banca mondiale. L’ente fornisce prestiti senza interessi o a costi molto bassi a quelle Nazioni che non possono ottenere finanziamenti a condizioni favorevoli dai mercati finanziari internazionali. «Ci sarà un nuovo round di finanziamento, il cosiddetto Ida 21», spiega a Linkiesta una rappresentante di Ecco, centro studi italiano sul clima, che lavora sul tema della finanza. «In questo momento, è importantissimo che i Paesi del G7, ma anche altre economie, come Arabia Saudita, India e Brasile, versino maggiori quantità di capitale nell’Ida. Questa agenzia, essendo la principale fonte di finanziamenti agevolati e a fondo perduto, rappresenta un’ancora di salvezza per molti Paesi», continua.
Alla fine dello scorso anno, il presidente della Banca mondiale, Ajay Banga, ha esortato i donatori a superare i novantatré miliardi di dollari raggiunti nel ciclo di finanziamento precedente. I negoziati sono ancora all’inizio, ma agli Spring meetings i ministri delle finanze del G7 non hanno fornito rassicurazioni in merito. Nel frattempo, i capi di governo africani, riuniti in un vertice a Nairobi il 29 aprile 2024, hanno chiesto all’Ida almeno centoventi miliardi per proteggere le proprie economie dal cambiamento climatico.
Per loro e per altri Paesi vulnerabili, ma non responsabili della crisi del clima, è stato istituito anche il fondo Loss and damage (perdite e danni). Le prime promesse di finanziamento del Fondo sono arrivate alla Cop28 di Dubai del 2023: per adesso seicentosessantadue milioni di dollari. Il Loss and Damage, ospitato e gestito dalla Banca mondiale, dovrebbe fornire aiuti economici per i danni causati dagli eventi meteorologici estremi resi più frequenti dal riscaldamento globale. Molte cose sono ancora da decidere. La prima riunione del Consiglio di amministrazione del Fondo si è tenuta dal 30 aprile al 2 maggio 2024 negli Emirati Arabi Uniti, ma la strada per rendere l’iniziativa sufficientemente concreta è ancora lunga.
I trasferimenti finanziari netti globali verso i Paesi in via di sviluppo, comunque, hanno raggiunto il livello più basso dalla crisi finanziaria del 2008: nel 2022 sono stati solo cinquantuno miliardi di dollari. Dati recenti mostrano che un Paese su tre tra quelli ammessi a ricevere finanziamenti dell’Ida è oggi più povero di quanto non fosse prima dell’inizio della pandemia. «Questo perché – spiega l’esperta – l’aumento dei pagamenti del debito in uscita dai Paesi in via di sviluppo è stato accompagnato da una diminuzione degli investimenti privati e degli aiuti finanziari».
Al di là della somma necessaria, dunque, l’elefante nella stanza della finanza climatica è il debito che molti Paesi in via di sviluppo hanno con diversi creditori esteri. I tassi di interesse hanno raggiunto livelli record: per molti Stati, il servizio di debito sta diventando una spesa insostenibile, oltre a essere una minaccia significativa per l’azione climatica. Le economie emergenti devono decidere se investire per ripagare il debito o per svilupparsi in maniera sostenibile.
Per non essere costretti a scegliere, una possibilità è quella di valutare i piani di rimborso del debito tenendo conto anche degli obiettivi climatici e di sviluppo del Paese. «Una mossa di questo tipo potrebbe aiutare le Nazioni fortemente indebitate a negoziare migliori condizioni e a spendere più denaro per gli investimenti sostenibili anziché per pagare gli interessi», dice ancora la rappresentante di Ecco.
Qualcosa dopo la pandemia è stato fatto. Per la risoluzione delle crisi di debito è stato istituito il Common framework for debt treatment, cioè il Quadro comune sul debito. Una serie di regole che dovrebbero aiutare i Paesi a ristrutturare il loro debito e a superare le sfide legate alla liquidità. «La sua efficacia però è ancora in dubbio. Il problema – continua l’esperta – è conciliare gli interessi dei diversi creditori: i Paesi del G7, la Cina, le Banche multilaterali di sviluppo e i finanziatori privati. I primi a non essere d’accordo sui requisiti minimi per la riduzione del debito sono proprio i privati».