Sbaglierò, spero vivamente di sbagliare, ma temo che ieri Kamala Harris, scegliendo come candidato vicepresidente il governatore del Minnesota Tim Walz, abbia sprecato la prima occasione a disposizione per vincere le elezioni presidenziali del 5 novembre.
Walz è un bel tipo, nato in Nebraska, insegnante e allenatore di football al liceo, cacciatore, favorevole al porto d’armi regolamentato, sergente della Guardia Nazionale, deputato per dodici anni eletto in un collegio per metà conservatore, rappresentante perfetto della mitica “Minnesota nice”, la notoria gentilezza nordica della gente che vive in una zona d’America che somiglia più alla Svezia che agli Stati Uniti.
Nelle ultime settimane, Walz è stato anche il più efficace sostenitore di Kamala Harris, assieme a Pete Buttigieg, nei talk show televisivi, grazie alla sua formidabile capacità di ribattere alle panzane del duo Trump-Vance con una parlantina a macchinetta e con risposte sarcastiche ma allo stesso tempo di buon senso politico nei confronti delle più retrograde proposte dei populisti trumpiani. È stato Walz a definire «weird», strambi, sia Trump sia Vance – cosa che ha colpito e affondato l’orgoglio di Trump, e continua a ossessionarlo ancora adesso – e così il suo «weird» è diventato il primo meme di successo della campagna presidenziale.
Walz certamente sarà di grande aiuto per Harris in molte zone del Paese, e anche con alcune fette di elettorato working class che troveranno rassicurante l’approccio da zio simpaticone, da persona normale, alla mano e in grado di capire i problemi della classe media americana. Ma il punto non è lui, Walz va benissimo.
Il punto è che Kamala non ha scelto come suo partner elettorale Josh Shapiro, il governatore della Pennsylvania. Shapiro è il più brillante politico americano della sua generazione, uno di quelli dotati di un’arte retorica superiore, diciamo alla Obama, ottimista, magnetica e sempre rivolta a prefigurare il futuro. Shapiro è questo e tante altre cose, ma sopratutto è il governatore della Pennsylvania. La Pennsylvania è da sempre uno degli Stati dove si decidono le elezioni americane, qui Trump ha vinto nel 2016 contro Hillary Clinton e poi ha perso con Biden nel 2020, ma nel ciclo del 2024 la Pennsylvania è senza alcun dubbio lo Stato dove Kamala Harris non può perdere se vuole diventare presidente degli Stati Uniti.
Il 5 novembre, intorno alle 10 di sera (ora di New York), guardate chi avrà vinto la Pennsylvania in attesa che il Midwest e la Costa occidentale chiudano i seggi: se i suoi diciannove Grandi Elettori saranno assegnati a Trump potete andare a dormire tranquilli, o meglio disperati, perché il nuovo presidente sarà Trump.
Kamala non ha strade alternative e percorribili per arrivare ai duecentosettanta Grandi Elettori necessari a diventare presidente, tutte passano dalla vittoria in Pennsylvania, uno stato fatto di due città, Philadelphia e Pittsburgh, e in mezzo una specie di enorme Louisiana conservatrice e a tratti razzista e reazionaria.
Shapiro ha vinto le elezioni per diventare governatore della Pennsylvania due anni fa con quindici punti di distacco rispetto al candidato trumpiano, e prima ancora, nel 2016, era diventato Attorney general nel giorno stesso in cui Trump aveva vinto a sorpresa lo Stato.
Insomma Shapiro sarebbe stato il candidato ideale per Kamala Harris, senonché Shapiro è ebreo. Non lo dirà nessuno a voce alta, ma lo dicono tutti a mezza bocca, Shapiro non è stato scelto perché è ebreo, e non importa se la scelta sia stata dettata dall’ala sinistra dei democratici terrorizzata dagli studenti universitari progressisti che gridano «dal fiume al mare» o dal ragionamento che gli strateghi di Kamala hanno fatto immedesimandosi nell’elettore bianco e conservatore che avrebbe potuto accogliere male un ticket presidenziale formato da una donna nera e da un ebreo. Qualunque sia stata la motivazione, Shapiro non sarà il candidato vicepresidente principalmente perché è ebreo, non perché sia un fanatico pro Benjamin Netanyahu, anzi è molto critico con l’attuale governo di Israele, molto più dei suoi compagni di partito, ma solo e soltanto perché è ebreo (il precedente è quello di Al Gore, il quale nel Duemila scelse invece come vice il senatore Joe Liberman, ebreo osservante, e non funzionò).
Il calcolo politico di Kamala al momento sembra un cedimento grave al populismo di sinistra o al tentativo di rassicurare l’elettore reazionario immaginato dai progressisti, ma tiene conto anche di un’altra ragione: Shapiro è un politico ambizioso, che appunto già chiamano “Baruch Obama”, e per questo Harris non ha voluto mettersi al fianco un potenziale concorrente interno, determinato, invadente e in grado di attirare l’attenzione dei media e magari di offuscare la leadership della coppia.
Ovviamente Shapiro si batterà ugualmente e senza sosta per far vincere ad Harris la Pennsylvania e la Casa Bianca, come ha dimostrato ieri al comizio di presentazione di Walz, guarda caso tenutosi proprio a Philadelphia, ma rinunciare alla migliore possibilità di conquistare lo Stato decisivo di questa campagna elettorale sembra un rischio troppo grande, per come stanno le cose in questo momento, senza contare l’immoralità della motivazione reale, e nascosta, su cui naturalmente gli impuniti repubblicani costruiranno la narrazione, a questo punto un po’ più credibile, di una Kamala prigioniera dell’ala radicale.
Con Shapiro, oltre alle maggiori chance in Pennsylvania, Kamala Harris avrebbe anche potuto raddoppiare la sua carica politica, improntata sulla gioia e sull’ottimismo tipici dei presidenti americani di successo, a cominciare da quelli repubblicani, grazie alla quale in pochi giorni ha recuperato lo svantaggio nei confronti di Trump. Harris ha preferito fare una scelta meno coraggiosa e meno ingombrante per il resto del suo partito, perché se avesse scelto come vice il cinquantunenne Shapiro avrebbe di fatto già chiuso la partita sul successivo candidato presidente democratico.
Tim Walz resta un’ottima scelta mainstream e centrista, per niente elitaria, anzi popolare, con una storia da sogno americano realizzato, che però non definirà in modo rivoluzionario la candidatura di Harris come ci si sarebbe aspettati dopo l’entusiasmo contagioso che è riuscita a generare fin dal momento del ritiro di Biden. Ma, del resto, le elezioni presidenziali non le decidono i possibili vicepresidenti. Qualche giorno fa, per parare le critiche sulla scelta del suo running mate J.D. Vance, Trump ha detto che i candidati vicepresidenti non hanno nessun impatto reale sull’esito elettorale. Scegliendo Walz, ha scritto ieri il New York Times, Kamala Harris ha fatto un passo in più per dimostrare che Trump ha ragione. Non è una bella recensione.
Il governatore del Minnesota ha sessant’anni, uno solo in più di Kamala, ma ne dimostra di più e sembra appartenere a un’altra generazione, probabilmente più rassicurante per l’elettorato bianco del Midwest, ma senza il carisma e la gravitas del Biden dei giorni di gloria, semmai Walz ricorda una versione esuberante e piaciona della scelta che fece Hillary Clinton con il governatore della Virginia Tim Kaine. Non finì benissimo.
Da governatore, Walz ha codificato il diritto all’aborto, e il Minnesota è stato il primo Stato americano a reagire con una legge alla sentenza della Corte Suprema che ha cancellato il diritto alla scelta della donna. Walz ha anche assicurato i pasti gratis ai ragazzi che vanno a scuola, ha regolamentato l’uso delle armi, ha legalizzato la cannabis e ha imposto alle aziende le ferie retribuite per i dipendenti, tutte posizioni normali in Europa, ma non scontate negli Stati Uniti. Walz è amato dai sindacati, è un fan di Bruce Springsteen e ha intitolato un’autostrada statale a Prince, il musicista simbolo di Minneapolis (la firma sul decreto è stata apposta con un inchiostro viola in onore della canzone Purple Rain).
Presentato ieri a Philadelphia da Kamala Harris, nella sua prima apparizione pubblica da candidato vicepresidente, Walz ha mostrato una verve esuberante e allo stesso tempo impacciata, popolare e niente affatto posticcia, nel mettere in fila i temi della campagna elettorale, menando fendenti agli «strambi» Trump e Vance, in particolare nei confronti di quest’ultimo che non vede l’ora di sfidare nel dibattito televisivo, «sempre che riesca ad alzarsi dal divano», un riferimento – che ha mandato in visibilio il pubblico – allo scherzo diventato virale nei giorni scorsi secondo cui Vance avrebbe raccontato nel suo memoir di aver fatto sesso col suo divano. Una cosa non vera, ma verosimile che ha ulteriormente consolidato la fama di Vance candidato weird. E, sempre a Philadelphia, Walz ha liquidato la costruzione posticcia del mito di Vance così: «Come tutte le persone normali che vivono nel cuore dell’America, Vance ha studiato a Yale, ha avuto la sua carriera finanziata dai miliardari della Silicon Valley e ha scritto un bestseller con cui ha diffamato la sua comunità. Ma per favore».
Walz è un democratico tradizionale anche in politica estera. Da deputato, nel 2014, è stato uno dei sostenitori della linea attendista di Obama sulla Siria, poi rivelatasi fallimentare per l’illusione di poter fare affidamento su Vladimir Putin, e poi anche del patto nucleare della comunità internazionale con gli ayatollah iraniani.
Oggi Walz è un sostenitore convinto dell’Ucraina (il Minnesota è gemellato con la ragione di Chernihiv), ed è anche molto impegnato a combattere l’antisemitismo e a sostenere le ragioni di Israele. Dopo il 7 ottobre ha ordinato le bandiere a mezz’asta in segno di lutto in tutto il Minnesota, e si è opposto alle richieste di disinvestimento nelle aziende israeliane, e semmai ha disinvestito i soldi pubblici del Minnesota sulle aziende russe.
Ieri, alla notizia della decisione di Kamala, il console israeliano nel Midwest e i democratici pro Israele si sono affrettati a celebrare la candidatura di Walz, anche per fermare l’offensiva trumpiana per bollare i democratici come pericolosi anti sionisti. I democratici americani, invece, sanno perfettamente che Hamas è un’organizzazione terrorista e sono saldamente pro Israele, da Biden a Harris, da Shapiro a qualunque altro dirigente politico di rilievo, fino a Walz. Il quale ha pure la fortuna di non essere ebreo.