Due anni buttati L’ambiente nell’Italia di Giorgia Meloni è solo un rumore di fondo

Più gli effetti del cambiamento climatico sono diventati estremi, più il tema è sparito dall’agenda di governo e dal dibattito pubblico. La presidente del Consiglio e i suoi ministri stanno costruendo un’idea ben precisa: non c’è niente di cui occuparsi o preoccuparsi. Fino al prossimo disastro

Roberto Monaldo / LaPresse

Il cambiamento climatico è troppo vasto e complesso per entrare nella ristretta scala di visione del mondo come appare dalla sezione romana di Colle Oppio, dove sembra ancora mentalmente rintanata la classe dirigente che amministra oggi l’Italia. In questi due anni di governo Meloni, abbiamo assistito a una situazione paradossale: più gli effetti del riscaldamento globale sono diventati estremi su questo paese, più il tema è sparito dall’agenda di governo e dal dibattito pubblico. 

Il ministro di riferimento è una figura debole come il forzista Gilberto Pichetto Fratin, mentre le teste che in teoria hanno studiato di più questo argomento (Procaccini, Giubilei) sono ormai impegnate in guerre culturali permanenti. Sul piano delle policy, le risorse sono poche, le priorità confuse. 

Non si può dire che il governo Meloni abbia affrontato male il cambiamento climatico, si può dire che non lo abbia proprio affrontato, non come una questione sistematica ed esistenziale per il nostro Paese, nonostante stia mettendo in difficoltà settori produttivi centrali (e cari al governo) come turismo e agricoltura. L’ambiente nell’Italia di Meloni è un tema marginale, un rumore di fondo, come se fossimo ancora negli anni Ottanta.  

La realtà fisica dell’Italia ha scandito rintocchi pesanti: il disastro in Emilia-Romagna, quello in Toscana, la siccità nelle isole. Un governo non è responsabile degli eventi estremi che accadono mentre è in carica, ma lo è di come reagisce a quegli eventi. È un eufemismo dire che gli aiuti post alluvione in Romagna non hanno inciso, sono arrivati tardi, sono stati pochi, in alcuni casi ridicoli, ci si è affidati alla figura taumaturgica di Figliuolo, che però sui vaccini aveva fatto un capolavoro perché dietro c’era una priorità politica chiara. 

Sul post-alluvione, non è successo niente di tutto questo. E il tema è tornato attuale dopo le precipitazioni della scorsa settimana. Se non fosse stato per gli amministratori locali, e per la capacità di quelle comunità di rimettersi in piedi dopo un disastro da dieci miliardi di euro di anni, staremmo raccontando ben altra storia. La siccità in Sicilia non è stata vista arrivare, nonostante ci fossero segnali chiari già durante l’inverno, è stata affrontata solo in fase di emergenza conclamata, in due anni non c’è stato nessun intervento strutturale sulla crisi idrica permanente che ormai in Italia colpisce, a turno, ogni Regione. 

Le parole di Francesco Lollobrigida («per fortuna che è successa al Sud») più che una gaffe, sono sembrate un manifesto: lontano da Roma, lontano dai pensieri. L’adattamento climatico è stato visto come una questione amministrativa, puramente formale: c’era da approvare un piano scritto da altri, è stato (meritoriamente, visto che aspettava da anni) approvato, la questione è morta lì, senza risorse, senza fondi e senza una visione politica di come si mette in sicurezza il territorio. 

Quella di Meloni è una classe dirigente ossessionata dall’idea dell’egemonia: hanno trattato la cooperazione climatica con l’Africa come se fosse la Rai o il ministero della Cultura, uno spazio dove applicare il proprio narcisismo politico. Il piano Mattei è stato ignorato dai potenziali partner nel nord globale ed è stato accolto con scetticismo da quelli africani: anche in questo caso non ci sono risorse nuove (i soldi sono stati presi dal vecchio fondo clima) né idee innovative. 

Dopo due anni di governo e quasi uno di implementazione, il piano Mattei si è rivelato per quello che è: per metà un’operazione di rebranding politico a uso interno, per metà un modo per mettere a regime e sotto il controllo diretto di palazzo Chigi le attività della cooperazione, delle aziende, delle università e delle Ong che operano in Africa. Come in ogni altro ambito dell’azione di governo, il piano Mattei è un progetto di egemonia senza idee o contenuti su cui fondarla, quell’egemonia. 

Non aiuta il fatto che il ministro dell’Ambiente sia – per essere buoni e per rispetto della sua indole da brava persona – un mero esecutore, una figura senza competenze specifiche, messo lì dopo aver già annunciato di essere pronto per un altro ministero, con una curva di apprendimento rimasta piatta da allora. Sulla transizione interna, il governo ha assecondato l’inerzia dello sviluppo delle rinnovabili, ha portato a termine i decreti attuativi sulle comunità energetiche (bene) ma ha dato riscontro alle paure degli agricoltori sull’agrivoltaico bloccandolo quasi del tutto (male). 

Sulle auto elettriche è tutto un disastro, dalle politiche industriali ai miseri incentivi, passando per la trasformazione della neutralità tecnologica nell’ennesima battaglia culturale. Essere l’unico Paese europeo che punta sui biocarburanti mentre lo standard diventa l’elettrico è un buon modo per incrociare le retoriche trumpiane di Salvini con gli interessi a breve termine di Eni, ma ci farà perdere tempo e soldi. 

Capiterà sempre più spesso che dovremo andare col cappello in mano, come fatto dal ministro Adolfo Urso, da colossi cinesi come BYD a implorarli di aprire siti produttivi in Italia. Nel frattempo, può sembrare un dettaglio secondario ma non lo è: la rete ferroviaria è al collasso da mesi, prendere un treno, che sia un regionale o un’alta velocità, è diventata una specie di lotteria in cui si possono vincere con grande facilità ore di ritardo. Far perdere agli italiani la fiducia nel treno, mezzo di trasporto sostenibile e decarbonizzato, è un danno anche alla lotta ai cambiamenti climatici. 

Infine, si deve citare l’entusiasmo nei confronti della repressione poliziesca, che accomuna purtroppo l’Italia a diverse altre democrazie europee, ma non è uno di quei casi in cui la compagnia conforta, anche perché non è chiaro se e dove si fermerà il piano inclinato di fermi arbitrari, perquisizioni intimidatorie, disegni di legge con chiaro intento di criminalizzazione. L’atteggiamento nei confronti degli attivisti è parte dello stesso disegno da cui siamo partiti: marginalizzare il tema, farlo sparire dal dibattito, costruire un pezzo dopo l’altro l’idea che non c’è niente di cui occuparsi o preoccuparsi. Fino al prossimo disastro.

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