SchuldenbremseLa Germania ha bisogno del debito comune europeo più di quanto voglia credere

Nonostante le resistenze interne, Berlino non può permettersi di ignorare il piano per la competitività di Mario Draghi: un'Europa forte è essenziale per il suo stesso benessere

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Il report sulla competitività europeo di Mario Draghi contiene moltissime raccomandazioni e proposte, ma, come ampiamente dimostrato dal dibattito di questi giorni, una è più pesante di altre: quella di mobilitare annualmente investimenti pari al cinque per cento del Prodotto interno lordo europeo, cioè oltre settecento miliardi di euro, per favorire una politica industriale comune. Secondo Draghi, infatti, una cifra del genere non potrà essere raggiunta senza introdurre un debito comune europeo.

Quella del debito comune è una questione antica e divisiva, che ha subito riattivato una serie di schieramenti consolidati: i falchi dell’austerità contro le colombe della spesa pubblica, i frugali Paesi del Nord contro il Sud. Ma la questione chiama in causa un Paese più degli altri: la Germania. Berlino, tradizionalmente, appartiene al blocco dei contrari al debito comune, eppure se guardiamo all’unico precedente storico in cui ne abbiamo visto una forma embrionale, cioè a NextGenerationEU, notiamo che proprio il cambio di posizione tedesco fu determinante nell’approvazione dello strumento.

Le ragioni che spinsero allora la Germania a rivedere le sue posizioni non sono troppo diverse da quelle che potrebbero farlo oggi. Prima di tutto, va considerata la vocazione esportatrice: se Berlino è la prima economia del continente e rappresenta il quattro per cento del Pil globale è anche grazie al mercato unico europeo in cui affluiscono le merci tedesche. Durante il covid, l’allora segretario dei socialdemocratici, Norbert Walter-Borjans, annunciò la posizione favorevole a NextGenerationEU del suo partito, all’epoca al governo con la Cdu di Angela Merkel, affermando che «la Germania si rialza se si rialza l’Europa», una frase che oltre ai principi fondanti della solidarietà europea conteneva anche la consapevolezza di una dipendenza reciproca tra Berlino e i suoi partner comunitari.

Il peso economico, del resto, è corredo di quello politico: ogni grande riforma non può non tenere conto della rilevanza tedesca in termini di seggi al Parlamento Europeo, il che vuol dire che chi vuole riforme coraggiose non può agire senza la Germania, ma anche che questa, una volta mobilitata, diventa un formidabile motore di cambiamento. Abbastanza pesante per poter rivendicare un ruolo di primo piano in UE, senza l’Europa la Germania giocherebbe un ruolo di secondo piano sulla scena globale.

L’interesse tedesco a un’Europa forte, valido durante l’emergenza covid, è tanto più concreto ora, con la Germania che affronta una crisi di sistema e che, dopo l’invasione dell’Ucraina, ha visto modificato il suo ruolo geopolitico a causa del crollo della Ostpolitik. Di fronte al declino industriale, economico e politico dell’Europa, Berlino non può sperare in illusorie salvezze individuali.

La questione è se la Germania sia pronta. Oggi, il governo è debole e diviso, con un consenso ai minimi storici. I due partiti principali della maggioranza, i verdi e i socialdemocratici (le cui famiglie politiche europee sono da tempo favorevoli al debito comune) soffrono moltissimo la spregiudicata “opposizione interna” dei liberali della Fdp, polo di minoranza del governo ma intenzionati a far valere il loro peso, pena la fine anticipata della legislatura.

È eloquente il fatto che, solo poco dopo la presentazione del report di Draghi, Christian Lindner, segretario Fdp e ministro delle Finanze, si sia affrettato a rigettare la proposta sostenendo che «con il debito comune non si risolve nessun problema strutturale» e rimando, per la competitività delle aziende, alle misure nazionali già ora possibili. Di fatto, dunque, Lindner rimane nell’orizzonte delle piccole patrie, e gli ha fatto subito eco Friedrich Merz, segretario dei cristiano-democratici, all’opposizione e in testa ai sondaggi, che ha bollato la visione di Draghi come l’anticamera di una «spirale di debito».

Del resto, Cdu e Fdp fanno leva su un sentimento molto diffuso nell’opinione pubblica tedesca e nel suo sistema mediatico: è significativo, ad esempio, che un editoriale apparso sull’Handelsblatt pochi giorni fa, a firma Moritz Koch, affermasse che la Germania non ha capito Draghi, e che invece che concentrarsi sul debito bisogna concentrarsi sulla de-regolamentazione proposta nel report e su come facilitare investimenti. Per quanto sia vero che il debito è solo una parte delle proposte di Draghi, il fatto che chi voglia (lodevolmente) stimolare un dibattito su esse debba sminuire la questione del debito dice molto del clima.

Il freno al debito è per la Germania un tema anche interno: l’emergenza covid e la crisi energetica hanno portato a sospendere la regole del pareggio di bilancio, lo Schuldenbremse che in questi anni ha mostrato tutti i suoi limiti. La linea di Lindner, però, è tornare nel 2025 al rigore dei conti, in una fase delicata in cui il Paese affronta una crisi produttiva sistemica. Con un governo debole e una clima non proprio favorevole alla più rilevante e strutturale delle proposte di Mario Draghi, in Germania lo scenario attuale è molto diverso dalla stagione che portò alla creazione di NextGenerationEU. Il rischio, quindi, è che gli avvertimenti di Draghi, e ogni dibattito sul debito comune, finiscano nel dimenticatoio fino alla prossima, più grave emergenza.

Il tema politico, però rimarrà, e continuerà a interrogare Berlino, alle prese con un fase complessa che richiede una nuova consapevolezza. Come disse Sergio Mattarella nel 2022, «in Europa ci sono Paesi piccoli e Paesi che non hanno ancora capito di esserlo». Nella storia europea, spesso sono stati i periodi di crisi a creare nuove consapevolezze. Stavolta, però, è tempo che queste maturino per lungimiranza e visione storica, più che per terrore del breve termine. La Germania, in questo processo, avrà un ruolo primario.

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