«Errare è umano, perseverare è diabolico». Mi viene in mente questa frase ascoltando l’attacco concentrato sul Green deal, definito dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, come «disastroso» e dal presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, come «autolesionista». Tutto questo, proprio nei giorni delle alluvioni in Emilia-Romagna e nelle Marche, praticamente negli stessi luoghi dove si sono verificate l’anno scorso con costi stimati a circa nove miliardi di euro, e a poche settimane dalla pubblicazione di una raffica di rapporti internazionali che mostrano l’impatto economico devastante dell’inerzia climatica e le conseguenze miliardarie su agricoltura (5,2 solo nel 2023), turismo e vita quotidiana degli eventi meteorologici estremi.
Gli stessi report illustrano i costi infinitamente minori per cittadini e imprese di una rapida transizione e le spettacolari avanzate tecnologiche di rinnovabili ed efficienza energetica, oltre agli esempi virtuosi di decine di città che hanno deciso di prendere in mano il loro destino.
Non potendo più negare la realtà e l’impatto dei cambiamenti climatici, la nuova dottrina per accaparrarsi preziose risorse pubbliche è quella della «neutralità tecnologica», che mette sullo stesso piano efficienza energetica e rinnovabili (devono essere migliorate ma esistono già e producono effetti importanti), e punta su altre soluzioni di insicura realizzazione, costose o ancora lontane da funzionare su scala adeguata, come il nucleare e la cattura del carbonio: tutte tecnologie che forse un giorno esisteranno, ma che richiedono tanti soldi e tempi molto lunghi, ben oltre il 2030 o addirittura il 2050.
E invece non possiamo essere neutrali. Dobbiamo accelerare per evitare che l’aumento della temperatura media globale vada oltre i +1,5°C rispetto all’era pre-industriale (ora siamo a +1,2°C) e si inneschino effetti non più reversibili, anche se si smettesse completamente di emettere gas climalteranti. Insomma, parlare di neutralità tecnologica significa non riconoscere né l’urgenza assoluta di agire, né l’esistenza di tecnologie che oggi sono più efficaci di altre; e significa anche coltivare l’illusione che sia possibile aspettare, e che posti di lavoro, filiere produttive e competitività possano essere mantenuti semplicemente impedendo il cambio di modello economico e ottenendo sussidi pubblici per coprire i danni incorsi.
Significa, insomma, ripetere gli stessi enormi errori che portarono dopo il 2011 a smantellare un settore per le rinnovabili che era il secondo al mondo e che provocò la perdita di settantamila posti di lavoro, e a preferire il gas russo; errori che indussero la Fiat a chiudere le linee di ricerca per le auto a basse emissioni e l’Italia a seguire Marchionne che non credeva nell’auto elettrica, o che ci fanno imboccare la strada dell’Italia «hub del gas» e spendere miliardi di soldi pubblici in gasdotti e rigassificatori in una situazione nella quale i prezzi del gas rimangono volatili e il consumo si riduce in percentuali a due cifre ogni anno in Europa. E che si fa di fronte alle conseguenze di tutti questi costosi errori? Si protesta contro il Green deal, mentre americani e cinesi – che hanno preso la palla al balzo ed approfittano della nostra miopia – hanno strategie industriali elaborate ormai molti anni fa.
Ma veramente il Green deal è la nostra rovina? Direi piuttosto il contrario. Il Green deal è l’insieme delle norme su rinnovabili, efficienza energetica, economia circolare e molto altro che durante la passata legislatura europea sono state approvate dopo lunghe procedure che hanno coinvolto governi e Parlamento europeo – più una miriade di stakeholder – sulla base delle opportunità economiche, sociali e occupazionali della transizione verde e digitale.
Adesso ci vogliono convinzione e massicci investimenti per accompagnare lavoratori, imprese e cittadini verso soluzioni e prodotti meno impattanti su clima e ambiente, dalle case alla nostra spesa. È a questa seconda parte alla quale ci viene chiesto di rinunciare per poter mantenere ancora per pochi anni tecnologie fossili o per puntare su soluzioni illusorie e, dunque, dichiararci già sconfitti di fronte a un nuovo mondo che rifiutiamo di vedere. La reazione negativa di parte dell’opinione pubblica è guidata dalla convinzione che questa transizione non porterà a un miglioramento della loro condizione, ma a difficoltà ancora maggiori.
Bisogna perciò riconquistare l’ascolto e la fiducia che nel 2019, quando il Green deal fu lanciato e milioni di ragazzi erano in piazza a ricordarci le vere priorità globali. Bisogna costruire sui progressi enormi che si sono fatti da allora. Non si può cambiare il mondo facilmente e senza scosse in pochi anni, ma è un fatto che, lungi da essere un disastro, la “green economy” già oggi impegna oltre il tredici per cento della forza lavoro in Italia; sono le imprese che hanno scelto di formare i loro lavoratori e lavoratrici e investire nella sostenibilità che hanno maggiori opportunità di crescita; milioni di cittadini e cittadine oggi pretendono di essere meno inquinati e più sicuri; siamo campioni nell’uso efficiente delle risorse, ma il nostro tallone d’Achille rimane il costo dell’energia e l’eccessiva dipendenza dai combustibili fossili, proprio quelli che si insiste a non volere abbandonare.
La sfida sempre più urgente per chi, come noi, crede che la transizione sia possibile e opportuna è dunque quella di ribaltare la narrativa attuale e vincere la partita in atto sulle risorse pubbliche e private, orientando investimenti e sussidi verso il superamento veloce di questa dipendenza e anche di un atteggiamento ideologicamente e culturalmente “anti-verde”, ancora convinto che sia possibile una crescita illimitata e senza riguardo per i limiti del pianeta, magari pretendendo sussidi e ristori per i danni incorsi a uno Stato che ha più di tremila miliardi di euro di debito pubblico.