L’invasione dell’Ucraina cominciata nel febbraio 2022 da parte dell’esercito russo sta accumulando costi altissimi per l’ecosistema. Ad essere precisi, centocinquanta milioni di tonnellate di anidride carbonica e altri gas serra dispersi nell’atmosfera nei primi diciotto mesi del conflitto: secondo gli esperti, emissioni paragonabili a quelle che un Paese come il Belgio produce in un anno. Un quarto delle sostanze dannose diffuse nell’ambiente viene generato in maniera diretta dalle operazioni militari, a partire dal consumo di carburante utilizzato per lo spostamento dei mezzi fino alla dispersione delle componenti tossiche presenti nelle munizioni.
Sulla quantità di CO2 immessa nell’aria pesano, però, anche altri fattori, a partire dalla chiusura dello spazio aereo ucraino: tenendo presente che un volo sulla tratta Londra – Tokyo dura in media quattro ore in più a causa della “no fly zone” sui cieli di Kyjiv, si calcola che le deviazioni imposte ai voli abbiano generato diciotto milioni di tonnellate di anidride carbonica, ovvero il dodici per cento delle emissioni totali dall’inizio della guerra. L’impatto maggiore, tuttavia, è (e sarà sempre di più) quello legato alla ricostruzione delle infrastrutture civili danneggiate dagli scontri, intensificatisi nell’ultimo periodo in risposta all’offensiva ucraina nel Kursk.
«La mappatura e lo screening iniziale dei rischi ambientali confermano che la guerra è letteralmente tossica», ha affermato Inger Andersen, la direttrice esecutiva del programma ambientale delle Nazioni unite (Unep). «La priorità è che questa distruzione insensata finisca ora. L’ambiente riguarda le persone: si tratta di mezzi di sussistenza, salute pubblica, aria e acqua pulite e sistemi alimentari di base. Si tratta di un futuro sicuro per gli ucraini e i loro vicini, e non si devono fare ulteriori danni».
Un appello che, lungi dall’essere recepito del tutto, è costretto a fare i conti con altre cifre che delineano una situazione tragica. O, per com’è stato definito, un ecocidio. Nel primo anno di combattimenti sul suolo ucraino si sono verificati incendi su un’area paragonabile a un milione di campi da calcio, concentrati per due terzi lungo la linea del fronte nel Donbass, tra le regioni di Luhansk, Donetsk, Zaporizhzhya e Kherson. Una parte considerevole delle zone bruciate si concentra lungo l’Emerald Network, una catena di parchi e riserve protette considerate di notevole interesse per la presenza di specie rare o in via di estinzione.
Le enormi e rigogliose distese di grano e girasole che si estendono a perdita d’occhio non appena varcato il confine ucraino non sono che un ricordo lontanissimo nell’Est del Paese, dove bombardamenti, mine, linee di trincea e incendi hanno sfregiato i terreni. Il Granaio d’Europa deve in larga parte la propria fama al chernozem, un terreno ricco di humus e componenti chimici che garantiscono una resa agricola elevatissima ma che, soltanto nel Donbass, si stima essere stato contaminato per oltre cinquecentotrenta ettari. Secondo gli esperti si tratta di una statistica gravissima che potrebbe avere ripercussioni sull’agricoltura ucraina per i prossimi cento anni, rievocando lo spettro di Chernobyl.
Nel 1986 il disastro nucleare diede vita alla cosiddetta Foresta Rossa, un’enorme pineta poco distante dalla centrale che si trasformò in un cimitero di alberi consumati dalle radiazioni, ancora presenti nel suolo seppur a livelli più bassi. Oggi i continui attacchi nell’area di Zaporizhzhia, molti dei quali non lontani dalla centrale nucleare sotto occupazione russa, minacciano seriamente la tenuta dell’impianto più grande d’Europa: i danni derivanti da un nuovo disastro atomico, probabilmente incalcolabili, rappresentano per la popolazione una rischiosissima spada di Damocle e si andrebbero a sommare agli oltre cinquantasei miliardi di dollari di danni ambientali stimati da un’indagine del Deutsche Welle, senza contare i pericoli sanitari.
L’ecocidio in atto sta infliggendo duri colpi alla biodiversità presente in Ucraina e gli effetti si notano a migliaia di chilometri di distanza. Oltre alla già nota moria di delfini spiaggiati sulle coste del Mar Nero, a fare notizia è stato l’allarme lanciato dagli ornitologi del Kashmir indiano, dove si è osservata una sensibile riduzione della presenza di uccelli migratori molto probabilmente correlata al conflitto: inquinamento dell’aria, il rischio di essere colpiti dagli attacchi ma anche deviazioni dai percorsi tradizionali che potrebbero aver imposto uno sforzo fisico insostenibile per molti esemplari.
Recentissimi, invece, i dati sull’inquinamento del bacino del Seim, nella regione di Sumy, il fiume che secondo gli esperti sarebbe stato gravemente contaminato dallo sversamento di sostanze dannose provenienti da uno stabilimento industriale della città russa di Tyotkino, con l’annichilimento di tutta la biodiversità fluviale.
Se questi sono, in parte, gli esiti della guerra sull’ecosistema in Ucraina, il Paese e la comunità internazionale sono chiamati fin da ora a interrogarsi su come gestire una fase di ricostruzione che si rivelerà cruciale per gli equilibri ambientali di tutto il mondo, come dimostrano gli esempi citati. Secondo le stime di Kyjiv, ricostruire intere città e complessi industriali costerà – in termini di emissioni – cinquanta milioni di tonnellate di CO2, senza contare che l’abbattimento necessario dei fabbricati danneggiati e la bonifica dei terreni minati provocherà inevitabilmente il rilascio di ulteriori sostanze dannose come l’amianto.
Fin dalle prime settimane dall’inizio dell’invasione ci si è interrogati sui costi economici e ambientali del processo di ricostruzione, auspicando una riedizione del “Piano Marshall” in chiave green. A tal proposito, l’Unione europea potrebbe rivelarsi un alleato prezioso sulla scorta dell’esperienza del Green deal, oltre che della duplice aspirazione dell’Ucraina di aderire all’Ue e di Bruxelles di tornare a sventolare ventotto bandiere con l’aggiunta di quella gialla e blu.
All’inizio del 2023 una risoluzione del Parlamento europeo sull’istituzione di un tribunale per il crimine di aggressione contro l’Ucraina riconosceva il legame tra la guerra e i danni a lungo termine perpetrati contro l’ecosistema e il clima. Qualche mese dopo, durante la plenaria di giugno a Strasburgo, la stessa Eurocamera condannava «la distruzione da parte della Russia della diga di Kakhovka», sul bacino del Dnepr, riconoscendo per la prima volta l’ecocidio come crimine di guerra.
Con gli aiuti per l’Ucraina ancora stabilmente nell’agenda europea, anche in questo inizio di legislatura, la Conferenza per la Ricostruzione in programma in Italia nel 2025 si preannuncia già un appuntamento da non perdere e al quale arrivare, auspicabilmente, con il conflitto terminato e un’idea di futuro ben delineata, per l’Ucraina e per il resto del mondo.