Comunque si concluda, il tentativo di Ursula von der Leyen di offrire un ruolo di peso a Raffaele Fitto nella nuova commissione, vicepresidenza esecutiva e importante portafoglio economico, nonostante il precedente voto contrario di Fratelli d’Italia, è anche un segnale su equilibri di potere che si vanno assestando in forme impreviste.
Sul Foglio, David Carretta scrive che in pochi credono davvero alle minacce dei socialisti e che Fitto, nella peggiore delle ipotesi (peggiore per lui, s’intende), dovrebbe temere più per le deleghe che per il ruolo di vicepresidente. Ma questa vicenda è solo un pezzo di una partita più grande.
Il fatto è che le elezioni europee di giugno si erano risolte nell’ennesima delusione per la destra sovranista, ancora una volta costretta a rinviare i festeggiamenti per un trionfo troppo a lungo annunciato, proprio come è accaduto a Marine Le Pen in Francia appena un mese dopo, con le elezioni anticipate convocate da Emmanuel Macron e l’imprevista affermazione del Nuovo fronte popolare. Eppure, un po’ per la spregiudicatezza delle leadership di centrodestra, un po’ per le divisioni, la miopia, il settarismo o semplicemente l’impreparazione delle sinistre, la situazione ha preso una piega assai più promettente, a Bruxelles come a Parigi, sia per Meloni sia per Le Pen.
In Francia, dopo il lungo stallo, causato o quanto meno giustificato anche dall’indisponibilità della sinistra, e in particolare del populista Jean-Luc Mélenchon, a fare i conti con la realtà e i numeri in parlamento, dalle ipotesi di un primo ministro socialista si è passati bruscamente all’incarico per il conservatore Michel Barnier, che di fatto consegna proprio a Le Pen, stante la posizione di opposizione preventiva delle sinistre, le chiavi della nuova maggioranza, della legittimazione del suo partito e di fatto della stessa durata della legislatura (non esattamente il risultato che la manovra di Macron si prefissava).
Come scrive su Le Monde Simon Persico, «la sinistra francese si ritrova quindi ancora una volta all’opposizione per aver soffiato troppo sul fuoco della delusione degli elettori, sin dalla sera del ballottaggio, invece di scegliere la strada della sincerità sulla situazione inedita e frammentata in cui si trova la Francia». La sinistra italiana, che si era tanto entusiasmata per il successo elettorale del modello frontista a Parigi, farebbe bene a riflettere anche su questi successivi e non felici sviluppi.
Per quanto mi riguarda, in un prezioso libriccino pubblicato un anno fa dalla fondazione Ugo La Malfa («Sullo stato dell’opinione», capitolo introduttivo del saggio del 1922 di John Maynard Keynes «A Revision of the treaty») ho trovato questa fulminante definizione di un certo modo di affrontare il dilemma del populismo: «I moderni uomini politici hanno per metodo quello di proclamare tante follie quante ne richiede il pubblico e di praticarne il minimo compatibile con ciò che hanno detto, confidando che questa follia delle azioni, che deve far seguito alla follia delle parole, si riveli presto come tale e offra un’opportunità per tornare nuovamente al buon senso – il metodo Montessori per quel bambino che è il pubblico».
È un ritratto che sembra calzare perfettamente a Ursula von der Leyen e a tanti suoi colleghi, ma che potrebbe andare altrettanto bene per molti esponenti del centrosinistra italiano da anni impegnati fino allo stremo nel corteggiamento dei populisti grillini, e per questo capaci di seguirli in tutte le peggiori follie degli ultimi anni, dal taglio alla cieca dei parlamentari con cui hanno sfregiato le Camere e la Costituzione fino al superbonus con cui hanno sfasciato i conti pubblici, per non dire degli ultimi vistosi ondeggiamenti persino in politica internazionale. Nel loro caso, però, non sono così sicuro che ci sia tutta questa speranza, e forse nemmeno il desiderio, di tornare al buon senso.
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