La situazione critica della sanità italiana è uno dei pochi argomenti che uniscano l’intero arco delle opposizioni, da Carlo Calenda a Elly Schlein. E certo nessuno, in questo caso, può contestare l’importanza, la concretezza e la comprensibilità dell’argomento scelto dal centrosinistra come punto di attacco principale della sua propaganda. A voler essere pignoli, si potrebbe semmai discutere il rapporto tra l’accusa al governo di sottofinanziare la sanità pubblica, a danno dei ceti popolari, e i millemila miliardi, anche dei ceti popolari, spesi per rifare ville e appartamenti con terrazza ai proprietari di casa, grazie al superbonus, aprendo voragini in quelle stesse casse dello stato da cui dovrebbero poi venire i finanziamenti alla sanità. Ma ora non divaghiamo.
La notizia interessante è che il problema sembra porsi in termini molto simili nel Regno Unito, dove mercoledì il neoeletto governo laburista di Keir Starmer ha fatto sapere di essere al lavoro su un piano decennale che potrebbe equivalere alla più grande riforma del servizio sanitario nazionale dalla sua creazione nel 1948, dopo avere ricevuto il rapporto di una commissione da lui chiamata a valutarne le condizioni al termine di ben quattordici anni di governi conservatori.
A dire la verità, anche qui ci sarebbe una differenza significativa con l’Italia, e cioè che gli ultimi quattordici anni i laburisti non li hanno passati in gran parte al governo, e in particolare alla guida della Sanità, come è capitato al centrosinistra italiano e al Pd, prima con Beatrice Lorenzin (dal 2013 al 2018) e poi con Roberto Speranza (dal 2019 al 2022). Ma sto divagando ancora, perdonatemi.
Come ricorda il New York Times, il terribile stato del Servizio sanitario nazionale è stata una delle principali ragioni, secondo i sondaggi, per cui molti elettori a luglio hanno votato per i laburisti. E questo può apparire persino banale. Meno banale è il fatto che l’inizio della catastrofe sia individuato dal rapporto nelle politiche di austerità messe in atto da David Cameron a partire dal 2010.
Lo dico perché ricordo bene come all’indomani della sua inaspettata e trionfale riconferma alle elezioni del 2015, anche in Italia, la politica economica di Cameron venisse portata a esempio di buon governo e celebrata come la definitiva conferma della superiorità del modello liberista, capace di tenere insieme rigore di bilancio, sviluppo economico e consenso politico. Esattamente come ora, negli stessi ambienti, va di moda dire a proposito del leader argentino Javier Milei, il presidente con la motosega, fervente ammiratore di Donald Trump, in costante collegamento telepatico con i suoi cani defunti e nostalgico della dittatura che secondo i liberisti italiani non dovremmo ridurre a fenomeno folcloristico (pur così diverso dall’algido etoniano Cameron, non foss’altro per l’acconciatura).
L’aspetto che personalmente trovo più interessante sta proprio nell’apparente incongruenza tra la riconferma trionfale di Cameron nel 2015 e l’esito delle sue politiche avviate nel 2010, che ne spiega forse anche la repentina e precipitosissima caduta nel 2016, con l’improvvida manovra del referendum sull’uscita dall’Unione europea con cui si immaginava di riuscire ancora una volta a prendersi gioco di tutti, utilizzando i populisti per strappare condizioni (ancora) più vantaggiose all’Europa e l’Europa per tenere a bada i populisti. È finita come sappiamo. E come sappiamo l’argomento principale della campagna per la Brexit è stato proprio il sottofinanziamento della sanità, le cui responsabilità venivano ingannevolmente rovesciate sull’Unione europea, con la celebre balla dei trecentocinquanta milioni a settimana che il Regno Unito avrebbe inviato a Bruxelles e che dopo la Brexit sarebbero invece affluiti agli ospedali.
Se pensiamo anche a quanto accaduto in Italia più o meno in quegli stessi anni, con le politiche di austerità del governo guidato da Mario Monti (con tutte le differenze e le giustificazioni del caso, per carità, considerato il rischio di default del novembre 2011) e la contestuale esplosione del Movimento 5 stelle, passato proprio in quegli anni dal cinque al venticinque per cento, sembra di intravedere una curiosa linea di tendenza. Dal liberismo al populismo, da un’austerità autodistruttiva a una demagogia ancora più autodistruttiva, con il rischio non piccolo di fare lo stesso viaggio all’andata e pure al ritorno, senza capirci mai niente. Nel mezzo, infatti, ci sarebbe o dovrebbe esserci la politica, e anzitutto una politica progressista capace di distinguere Mario Monti da Mario Draghi, o almeno di non confondere gli interessi del proletariato internazionale con quelli dei liberali e della destra economica tedesca.
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