La fine del Novecento, di nuovoMaggie Smith e la grazia di dire battute feroci nel secolo delle indicibilità

L’attrice di “Gosford Park” e “California Suite” (non solo “Downton Abbey” o “Harry Potter”), morta a quasi novant’anni, ha avuto una carriera lunga e ricca perché aveva uno stile unico e rendeva citazioni citabili frasi oggi praticamente proibite

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Il primo cui ho pensato, quando ho letto che era morta Maggie Smith, è stato Gianni Morandi, che compirà ottant’anni a dicembre. Qualcuno alla fine dell’anno scorso mi ha detto «Gianni si chiude in casa tutto l’anno, altrimenti vogliono tutti intervistarlo sui suoi ottant’anni»: Maggie Smith, che a dicembre ne avrebbe compiuti novanta, secondo me è morta pur di non dare le immancabili interviste celebrative, che sono noiosissime se non sei abbastanza insicura da avere bisogno di celebrazioni.

C’è un tic insopportabile nei giornali di questo secolo, ed è, quando muore qualcuno con un secolo di carriera, quello di ridurre quel qualcuno alle sue ultime tre opere, quelle che hanno qualche speranza d’essere riconosciute nei titoli da un pubblico orrendamente malato di presentismo, un pubblico che non clicca su ciò che non sa, e che non sa quasi niente.

Quindi, quando ho letto “Downton Abbey” nei primi titoli sulla morte di Maggie Smith, mi sono immediatamente innervosita. Maggie Smith aveva trentacinque anni quando vinse il suo primo Oscar: veramente la cosa più importante che ha fatto è una serie cominciata quando ne aveva settantacinque?

Sì, lo so che nessuno si ricorda di uno dei miei film preferiti, “California Suite”, in cui oltretutto è in coppia con Michael Caine, un altro che quando morirà potremo fare la trecentesima sceneggiata da prefiche sulla fine del Novecento, ma insomma – mentre arringavo i presenti sulla memoria corta di questo secolo, mi sono resa conto che citavano “Downton Abbey”, e non “Harry Potter”, indubitabilmente più popolare.

E subito dopo ho capito perché. La contessa di Dowager, lady Violet, stava a questi anni come Carrie Fisher era stata ai precedenti: serviva a far dire «sì, anch’io» a donne che nella vita non avrebbero mai osato tanto. Serviva a farle proiettare, senza danni per le loro relazioni reali, nella vecchia aristocratica che può permettersi tutto, che non ha ritegno nel mostrare quanto ritenga tutti inferiori, che non ha timidezze o altri ostacoli alla stronzaggine.

Le citazioni citabili di lady Violet sono molte, in ogni puntata gli sceneggiatori si premuravano di fornirle almeno una battuta memorabile, ma forse la più ripetuta è «è facilissimo evitare la gente che non ti piace, l’impresa eccezionale è evitare i propri amici». È ovviamente un’ottima battuta, di discendenza oscarwildiana, ma proprio come accadeva con le insofferenze di Carrie Fisher è una battuta che, nella vita vera, amano solo quelli che non sono lontanamente sociopatici.

I sociopatici veri non si vantano dei loro tratti caratteriali, spesso neppure li riconoscono, e non si piccherebbero mai d’essere contenti quando qualcuno disdice una cena già organizzata. Violet Crawley, contessa e matriarca, serviva a sublimare desideri che non solo non sapevamo di avere, ma proprio che non eravamo in grado di avere. Violet, ottuagenaria d’inizio Novecento, che dice che no, la nipote non ha diritto ad avere opinioni politiche, non finché non sarà sposata, allorché sarà il marito a dirle che opinioni avere, ci serviva come Rhett serve a Rossella in “Via col vento”.

«Dite delle cose scandalose», ridacchiava civettuola Rossella, e noialtre commentavamo con la stessa divertita estraneità la vecchia da cui certo non potevamo aspettarci illuminate opinioni postfemministe: certo che diceva cose retrive e arroganti, ma era perché era una donna d’altri tempi, non un’ottantenne d’oggi ma un’ottantenne d’un secolo fa. Forse Violet è il più gran trucco che il secolo delle indicibilità si sia mai inventato.

Violet è la filiazione del personaggio per cui Smith venne candidata per la sesta volta all’Oscar, la Constance (contessa anche lei) di “Gosford Park” di Robert Altman, scritto dallo stesso sceneggiatore, Julian Fellowes, ma questa è un’inutile precisazione da secchiona, perché il grande pubblico nell’era delle piattaforme ha quaranta serie nuove a settimana da vedere, e mica può ricordare un film d’uno dei più grandi registi di tutti i tempi, un film di ventitré anni fa, che ormai valgono come duecentotrenta.

Mi piace credere che non ci sarebbe stata Violet senza Maggie, una alla quale tutti scrivevano battute feroci perché evidentemente solo lei sapeva dirle con quella grazia. In “Delitto sotto il sole” era l’albergatrice ex ballerina che diceva d’un’altra che era stata nel suo corpo di ballo che non c’era mai stata gara: anche allora sapeva alzare le gambe più di tutte noi, e allargarle.

Era passata quasi indenne attraverso cinquantacinque anni di carriera, due premi Oscar, e alcune incredibili compartecipazioni – in “Assassinio sul Nilo” era stata la badante di Bette Davis, in “Otello” la Desdemona di Laurence Olivier – quando arrivò quella che arricciando il naso definiva «that’s tv, for you»: la fama televisiva. Diceva che non andava più da Harrods, perché i grandi magazzini col livello di fama di “Downton” le erano diventati impraticabili, le restavano solo i musei dove la gente aveva un po’ più di ritegno nel gettarlesi addosso. Nessuno la ricordava più come badante di Bette Davis, ma molti come consuocera di Shirley MacLaine – che i novanta li ha compiuti qualche mese fa, e io comincerei a preparare coccodrilli sulla fine del Novecento anche per lei.

L’unico sul quale non ha senso preparare coccodrilli, perché evidentemente immortale, è Gianni Morandi. Che è anche l’unico che, portandosi addosso da più di sessant’anni una fama da fermare il traffico, non credo ci penserebbe due volte prima di entrare in un grande magazzino. Meno male che è immortale, Gianni, perché io non credo che potrei sopportare i titoli «Andò a Sanremo con Jovanotti».

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