Il ristorante non è più sufficiente e c’è chi lo aveva capito decine di anni fa. Nella maggior parte dei casi si chiamano progetti, talvolta laboratori. Il nuovo orizzonte della ristorazione messicana parte dalla tavola e dal servizio di un piatto, per espandersi a un ambito valoriale e di contesto estremamente più ampio.
Come è giusto che sia, anche questa tradizione ha delle figure Caronte, che hanno anticipato i movimenti e le tendenze odierne trasmettendo un punto di vista diverso sulla cucina del Paese. Chef come Enrique Olvera, Gabriela Camara, Jorge Vallejo, Eduardo Garcia, Elena Reygadas sono figure chiave di riferimento per un movimento nato come una presa di coscienza e un’emancipazione stessa dell’alta cucina (se ha ancora senso chiamarla così) verso il mondo esterno.
In Messico si mangia a tutte le ore e dovunque. Non c’è un orario prestabilito comune, c’è meno rigore rispetto all’Italia perché è il lavoro a scandire i ritmi del cibo e non viceversa. La gente mangia con altra gente, divide sedie, spazi, tavoli inventati all’angolo dei semafori, parla, commenta, si racconta. Ognuno con la propria diversità ma tutti con la stessa tortilla.
Il pasto, per un messicano, quello che loro chiamano comida, è un momento da rispettare anche quando si è soli. La cura e l’attenzione riposti in ogni singolo tacos assemblato al semaforo è spesso maggiore di tanti locali di media caratura che ci servono insalate o panini in Europa. E la professionalità non è da meno. Questo modello è già vincente, lo era in passato e lo è tutt’ora, con consapevolezze e attenzioni rinnovate. L’ingrediente di stagione, il piccolo produttore, l’idea del raccolto e mangiato così come del from farm to table – la lingua di plastica della critica gastronomica odierna – guarda caso sono il cuore fisiologico dello street food dei paesi latini e dell’America del Sud. Con la stessa visione, ma cercando di apportare un valore più concreto e in dialogo con il contesto, le nuove generazioni di chef e cucinieri hanno optato per creare progetti più che ristoranti.
Proprio perché, come concepito oggi, il ristorante non può essere un modello sufficiente a rappresentare adeguatamente l’incredibile know know di cultura e tradizione di questi popoli. Sempre di più, si assiste alla nascita di projectos o, ancora meglio, taller. Dopo il lavoro di Adrià, questa parola applicata alla cucina sta proprio a indicare la componente di studio, ricerca, analisi, sperimentazione custodita al suo interno.
Pensiamo ad un indirizzo come Expendio de Maiz Sin Nombre, nel cuore della capitale messicana. Questa cucina su strada ha aperto i battenti nel 2018 con l’intento di lavorare solo prodotti (non sempre biologici) provenienti da coltivatori situati nei pressi di Città del Messico, rispettando stagioni e micro stagioni. Non c’è un uno chef, o meglio tutti coloro che lavorano al progetto, a periodi alterni, si occupano della cucina e ne sono responsabili. I piatti cambiano senza rancore e accade spesso che una nuova ricetta entri in carta per sostituzione di qualcosa non più a disposizione. A dire il vero, non c’è nemmeno un menu. Chi arriva e trova posto si siede e si affida, in stile omakase, a chi cucina in quel momento. Primo servizio, secondo servizio, terzo servizio e così via finché si ha voglia di scoprire e lo stomaco regge. Le ricette sono prevalentemente vegetali e carnivore, il pesce capita ma raramente e, nel caso, viene proposto fresco perché appena consegnato.
La filosofia alla base cerca di lavorare il prodotto il meno possibile, sia perché non si hanno strumentazioni particolari sia perché si vuole che la materia parli da sola. Britney, che è cugina di uno dei fondatori, ci racconta di come molti dei piatti siano istintuali, senza codici o regole prestabilite. «Ognuno può dare sfogo alla propria creatività, costruendosi uno stile più o meno riconoscibile. Tutti attingiamo dalla tradizione famigliare, dai sapori di casa, da quello che mangiavamo da bambini e che nonne o mamme ci preparavano amorevolmente. Le ricette tendono a cambiare ogni cinque/sei settimane, e in genere ogni domenica ci si riunisce per fare il punto su qualcosa di nuovo che sta per arrivare. Ad esempio, tra poco sarà il momento del mais dolce e abbiamo già tante idee. La maggior parte dei piatti sono tacos, fatti rigorosamente da noi, lavorando il mais e cuocendolo sul fuoco, proprio qui. Usiamo frutta secca e fresca, germogli, erbe, verdure a foglia, peperoncini da tutte le zone del Paese e ogni piatto è diverso».
Un braciere inserito in un blocco di cemento, una grande base di metallo su cui far cuocere la maggior parte degli ingredienti, piatti di ceramica fatta a mano e tutti – compresi i fiori – a portata di mano. Un modello non perseguibile nei nostri Paesi «educati e normati» ma senza ombra di dubbio affascinante ed efficace. Non è possibile prenotare, in settimana sono aperti solo di giorno, fino a tardo pomeriggio e nel fine settimana anche per il turno serale.
Merita l’attesa e il trasporto emotivo, merita vivere il viaggio senza sapere esattamente dove ti porterà ma, soprattutto, merita vedere un collettivo di giovani alternarsi in ruoli e responsabilità facendo qualcosa che amano e ci unisce, uguali, alla stessa tavola.
Courtesy cover image World50Best Restaurant, all the rest of the images Chiara Buzzi