Alto mareSulle concessioni balneari il governo Meloni cerca di accontentare tutti, ma non soddisfa nessuno

La misura della maggioranza è giuridicamente debole e lascia molte incertezze per il futuro, scaricando la responsabilità sui Comuni e rimandando il problema al 2027. La proroga non è in linea neanche con le aspettative degli imprenditori che si erano fidati delle promesse politiche in contrasto con la direttiva Ue

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Il Consiglio dei ministri del 4 settembre ha dato il proprio via libera alla riforma delle concessioni demaniali delle spiagge. In una delle giornate più lunghe per Giorgia Meloni da quando è al Governo, a causa delle vicende che hanno coinvolto il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, Palazzo Chigi prova a mettere la parola fine a una questione che si trascina da quasi diciotto anni. O almeno questo era quello che sperava l’intero settore. Invece il testo che esce dal Cdm lascia aperti vari interrogativi sulla solidità di una misura che prevede l’ennesima proroga della scadenza delle concessioni, questa volta al 2027. 

In ogni caso dopo quella data, proprio alla fine del mandato di questo esecutivo (Sic!), dovranno obbligatoriamente esserci le procedure di affidamento nel rispetto del diritto dell’Unione europea. Cade così la maschera di una destra che per anni ha convinto gli imprenditori che le gare non si sarebbero fatte. Una retromarcia ampiamente prevista e arrivata, puntualmente, dopo le elezioni europee. 

Nella nota diffusa da Palazzo Chigi si legge che tra i punti principali della riforma figurano «l’estensione della validità delle attuali concessioni fino al settembre 2027 e l’obbligo di avviare le gare entro il giugno 2027». La scadenza può essere ulteriormente spostata al 31 marzo 2028 «in presenza di ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva» come si apprende dal testo completo della misura pubblicato dal portale di settore Mondobalneare. La proroga però non sarà obbligatoria ma lascerà che siano Comuni ed enti locali a decidere se avvalersi del tempo extra concesso dal decreto-legge o procedere con le gare già da subito. 

Una misura che giuridicamente non appare solidissima visto che negli ultimi anni sia la Corte di giustizia europea che il Consiglio di Stato hanno escluso ogni forma di proroga delle concessioni. Una mossa che però è estremamente utile a Palazzo Chigi che rinvia il problema di qualche anno e nel frattempo scarica la questione sugli enti locali. Ed è proprio questo l’escamotage studiato dall’esecutivo: la proroga non risulterebbe automatica e indiscriminata perché sarebbero i Comuni a decidere caso per caso. Anche se non sembra così scontato che Sindaci e dirigenti locali si prenderanno la responsabilità di usufruire di una proroga contraria a diverse sentenze europee e nazionali e sulla quale in passato hanno già espresso perplessità sia il Quirinale che l’Autorità garante della concorrenza. 

I Comuni che decideranno di procedere subito con le gare dovranno comunque restare nel perimetro indicato dal decreto-legge: durata delle concessioni di minimo cinque e massimo vent’anni, canoni aumentati del centodieci percento rispetto a quelli attuali e riconoscimento di un’equa remunerazione ai concessionari uscenti che non dovessero riuscire ad aggiudicarsi la nuova concessione. Proprio quest’ultimo punto era uno di quelli attorno ai quali si era creata maggiore attesa. La norma prevede che al concessionario uscente venga riconosciuto «il valore degli investimenti effettuati e non ancora ammortizzati» nonché «quanto necessario per garantire al concessionario uscente un’equa remunerazione sugli investimenti effettuati negli ultimi cinque anni stabilita sulla base di criteri previsti con decreto del ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze da adottarsi entro il 31 marzo 2025». Una soluzione che sa tanto di beffa per quegli imprenditori che vivono in una situazione di incertezza da molti anni e che quindi hanno limitato al minimo gli investimenti. E soprattutto non risolutiva, visto che vincola la remunerazione a un altro decreto. 

Ma non è tutto: il testo prevede che in fase di valutazione delle offerte si dovrà tenere conto, tra i criteri di aggiudicazione, anche delle offerte superiori rispetto al valore minimo dell’indennizzo. In altre parole, chi ha le capacità economiche per farlo potrà giocare al rialzo sull’indennizzo da corrispondere al concessionario uscente e questo verrà valutato positivamente. Un passaggio che apre di fatto le porte ai grandi investitori —da sempre osteggiati dal Governo in questa partita — e che va a mitigare l’efficacia delle altre voci inserite a tutela delle piccole imprese come l’aver acquisito esperienza tecnica e professionale negli anni precedenti e l’aver utilizzato una concessione quale prevalente fonte di reddito per sé e per il proprio nucleo familiare. Non esattamente quello che gli imprenditori si aspettavano da questa maggioranza.

La misura del Governo tiene i piedi in diverse scarpe e cercando di accontentare tutti alla fine non accontenta nessuno. Non accontenta chi chiedeva le gare subito nel rispetto della normativa europea, vista l’ennesima proroga e alcune variabili che potrebbero annacquare le procedure. Non accontenta i Comuni, che si trovano a dover gestire una situazione poco chiara con una norma che scarica su di loro le responsabilità e li espone a probabili contenziosi. E non accontenta soprattutto gli imprenditori, che si sono fidati delle promesse dei partiti di destra, seppur palesemente in contrasto con la direttiva europea. Il risultato frutto di due anni di mappatura delle spiagge e di trattative serrate con Bruxelles alla fine è un riordino incerto sia politicamente che nei contenuti. Ciò che invece è sicuro, ancora una volta, è che il settore nel frattempo continuerà a rimanere nell’incertezza.

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