C’è stato un tempo in cui non era così strano essere uccisi o picchiati a Milano. Un tempo in cui esisteva un preciso cursus (dis)honorum per scalare le gerarchie della malavita. E anche ragazzi di provincia o di periferia potevano diventare i padroni della capitale morale d’Italia. Un tempo di padri assenti, madri apprensive, soprannomi sudamericani (“Francis faccia d’angelo”, “il Tebano”) e vizi arcitaliani in cui era sottile il confine tra mito e mitomania, e la prigione era un luogo da cui poter evadere non solo mentalmente. Chi pensa che la Milano di oggi sia lontanamente comparabile a quella di cinquant’anni fa, il consiglio è quello di leggere l’ultimo libro del giornalista Stefano Nazzi, abituato a raccontare ogni mese crimini italiani alle orecchie di migliaia di ascoltatori di “Indagini”. Leggendo “Canti di guerra” (Mondadori) si scoprirà che a Milano tra gli anni Settanta e Ottanta si contavano di media centocinquanta omicidi all’anno. Nel 2022 sono stati diciannove. Eppure oggi abbiamo più paura di allora.
«Ci sono molti fattori in gioco, come la propaganda politica e, ovviamente, l’effetto dei social media. Basta che qualcuno, magari un influencer, condivida sui social di aver subito un furto e diventa virale, creando una percezione di insicurezza. Quaranta anni fa Milano era una città molto più pericolosa di quanto lo sia oggi. Questo non significa che non ci siano problemi: la microcriminalità esiste ancora, così come i reati di strada e le risse tra ragazzi. Ma se guardiamo alle statistiche dei reati, c’è stata una forte diminuzione, soprattutto per quanto riguarda i crimini più gravi», spiega a Linkiesta Nazzi, mentre è in treno in qualche parte d’Italia in attesa di partecipare alla diciannovesima Festa del Racconto che si terrà a Carpi, Campogalliano, Novi di Modena e Soliera dal 2 al 6 ottobre, in cui dialogherà con Hans Tuzzi di “Conflitti, vendette, amori nella Milano degli anni Settanta” (domenica 6 ottobre, ore 19, Piazzale Re Astolfo, Carpi).
Leggendo il tuo libro sembra di rivivere un film di Martin Scorsese. Cosa accomuna i tre protagonisti di quella stagione criminale: Renato Vallanzasca, Francis Turatello e Angelo Epaminonda?
Li accomuna il desiderio di partecipare al grande piatto di Milano che stava diventando una città ricca dove giravano tanti soldi. E loro tre volevano avere quei soldi. Li volevano avere non lavorando, facendo quello che sapevano fare meglio. Ma sono tre personaggi estremamente diversi tra loro.
Quali sono le principali differenze tra loro?
Vallanzasca è un narcisista, questo è il suo tratto distintivo. Ma è anche un anarchico insofferente a qualsiasi autorità, anche all’autorità criminale, tant’è vero che lui è l’unico che rifiuterà poi sempre qualsiasi contatto con i grandi gruppi della criminalità organizzata come mafia e camorra. È insofferente ad avere un capo o a seguire qualcuno. Ama fare rapine, ma non entra mai nello spaccio di droga, anche se persone della sua banda lo facevano, e lui lo sapeva. Turatello invece rappresenta il potere puro: è un imprenditore del crimine, impegnato a costruire una rete di attività criminali che lo rendesse il padrone di Milano. Per questo scese a patti con la criminalità organizzata, con altre bande come quella della Magliana a Roma, probabilmente anche con persone dei servizi segreti che poi chiesero il suo aiuto durante il rapimento di Aldo Moro.
Ed Epaminonda?
È la scheggia impazzita: non ha regole, nemmeno criminali. È quello che uccide di più, con maggiore indifferenza, guida una banda di assassini forsennati e per farsi strada è disposto a tutto, eliminando qualsiasi ostacolo gli si presenti davanti. Un ambizioso fino all’estremo.
Questi personaggi amavano romanzare le loro origini, così come le loro imprese criminali. E non erano timidi con la stampa. C’era un cortocircuito tra giornali e malavita o era un prerequisito per scalare le gerarchie della criminalità?
Tutte e due le cose. Erano mitomani e narcisisti; tutti e tre davano interviste ai giornali, un comportamento impensabile per i criminali di oggi. Addirittura Vallanzasca andava a trovare i giornalisti nelle redazioni pur essendo latitante. Facevano di tutto per farsi notare. Giravano su macchine lussuose, Turatello indossava spesso con una pelliccia chiara e vistosa. Era una criminalità che legava il proprio potere anche all’aspetto esteriore e alla propria presenza, il farsi vedere e farsi notare faceva parte del gioco criminale. Ancora adesso non ci sono spiegazioni su come Turatello sia stato latitante ma allo stesso tempo visibile per anni. Lui girava tranquillamente per la città, tutti sapevano che era il capo della criminalità milanese, e nessuno lo prendeva. Probabilmente c’era da una parte un’impreparazione, e dall’altra sicuramente una connivenza, perché alcune cose non sono spiegabili altrimenti. In generale le forze dell’ordine e la magistratura erano impegnate nella lotta al terrorismo, che portava via tutte le energie e attenzioni. La criminalità in quel periodo si muoveva più liberamente.
Nel libro spieghi anche come si sia evoluta la ligera, l’artigianalità dei piccoli furti alla “I soliti ignoti”, fino a un sistema più complesso legato alle bische clandestine e allo spaccio della droga. Qual è stato secondo te il momento in cui è cambiato il modo di compiere crimini a Milano?
La rapina del 15 aprile 1964 alla gioielleria Colombo, al numero 12 di via Monte Napoleone, segnò un punto di svolta. Mai si era sparato nel centro di Milano così, mai c’era stata una rapina del genere. La città stava diventando sempre più ricca, con locali come il Derby Club, frequentati da imprenditori, uomini della finanzia, cantanti, attori. I tre protagonisti di quella stagione criminale si inseriscono in questo mondo e capiscono subito che non possono girare senza armi. Vallanzasca racconta di quando, da ragazzo, lo mandavano a fare rapine nei magazzini a rubare prosciutti. Lui disse: “Ma scusate, facciamo prima a puntare una pistola in faccia al camionista che li trasporta, piuttosto che scassinare il magazzino”. Gli risposero: “Ma quella è rapina a mano armata!”.
E cosa rispose Vallanzasca?
“Chi se ne frega”. Una risposta che dimostra un salto di qualità nella criminalità milanese: se vogliamo fare soldi, bisogna giocare pesante.
Un altro protagonista del libro è Milano, attraversata dalle rotte criminali da Lambrate a Giambellino. Tu sei cresciuto proprio a Milano in quegli anni e hai visto la città cambiare. Quanto è diversa rispetto alla versione di oggi?
Era una Milano completamente diversa. Mi ricordo questi tre personaggi sempre sulle prime pagine dei giornali, e tutti quelli che gravitavano intorno a loro. Il centro di Milano allora era tutto un susseguirsi di locali notturni, night club, dancing, quelli che loro frequentavano. Tutto quello non c’è più: piazza Vetra, maggiore centro di spaccio di eroina del nord Italia, per fortuna non è più così. San Vittore oggi ha queste mura esterne enormi; allora non c’erano, era molto più facile evadere. I luoghi rimangono, ma sono cambiati totalmente, c’è stata proprio una rivoluzione anche dell’aspetto di Milano. Prima era tutto più inserito nel contesto della città. Oggi la criminalità non è scomparsa, ma è molto più nascosta, dietro le quinte.
Una parabola simile a quella della mafia dopo la lotta tra palermitani e corleonesi: meno sparatorie, più affari.
Sì, è una tendenza generale. Da tempo c’è stato un cambio di rotta nelle organizzazioni criminali grandi. La mafia, dopo la politica suicida dei corleonesi di guerra allo Stato, è stata di fatto annientata. E anche la criminalità ha seguito la regola: “Un morto in meno, soldi in più”. Meno crei caos e visibilità, più riesci a fare affari in pace. Non vuol dire che non uccidano, se necessario, ma le sparatorie come quella di Vallanzasca in piazza Vetra del 17 novembre 1976 oggi sono eccezionali. La criminalità agisce in un altro modo.
Il carcere ha un ruolo particolare nella malavita milanese dell’epoca: un luogo dove si entra ed esce con la stessa facilità, in cui si fa sfoggio della propria influenza e potenza, salvo poi essere uccisi non appena cambiano le dinamiche di potere.
Erano prigioni da cui si scappava molto più facilmente e con meno sorveglianza. Oggi con le leggi speciali uno come Turatello sarebbe al 41 bis, ma allora le dinamiche esterne erano replicate all’interno del carcere, le bande criminali replicavano gli stessi meccanismi dell’esterno. Per esempio nel carcere di Cuneo, Turatello di fatto comandava. Poi si scoprì che il direttore era stipendiato da lui. Uno dei tanti.
Nel podcast “Indagini” racconti con grande meticolosità giornalistica i casi giudiziari, mostrando spesso come i media possano influenzare negativamente le indagini. Pensi sia avvenuto lo stesso nel caso di Sharon Verzeni?
I media hanno avuto un impatto negativo perché hanno creato una percezione sbagliata di come funzionano le indagini. Quando si indaga su un crimine è normale partire dalle persone più vicine alla vittima, come familiari e amici, perché la maggior parte dei delitti avviene proprio in questo ambito ristretto. Ma i media hanno riportato questa procedura standard come se fosse una sorpresa o un indizio di colpevolezza, creando confusione tra le persone. Così facendo, hanno alimentato sospetti ingiustificati sul fidanzato, quando in realtà non c’era nulla di anomalo nel fatto che fosse stato interrogato. Se non avessero trovato il vero colpevole, un assassino che ha confessato, il ragazzo sarebbe rimasto al centro di sospetti infondati per molto tempo, con tutte le conseguenze negative che questo comporta. Purtroppo questo è un approccio da cui non riusciamo a liberarci. Un fatto come l’assassinio di Sharon attira inevitabilmente l’attenzione dei media e del pubblico, perché si tratta di una donna colpita in modo assolutamente casuale, senza un motivo apparente.
Anche un altro caso di cronaca ha colpito l’immaginario collettivo: il caso del triplice omicidio di cui è accusato un diciassettenne di Paderno Dugnano. Cosa ne pensi delle ricostruzioni psicologiche a caldo su di lui e la famiglia? Un altro dei mali dei media italiani?
Il problema è che non si può ricostruire la psicologia o la personalità di una persona semplicemente dal fatto che abbia giocato con la PlayStation o ascoltato una canzone dei Beatles. Gli esperti ci proveranno, certo, ma sarà comunque difficile, e solo chi ha gli strumenti giusti potrà farlo, quando questa persona sarà sottoposta a perizie in carcere. Avverrà sicuramente dato che è minorenne. Fino a quel momento è inutile cercare una spiegazione a tutti i costi in qualcosa che al momento è impossibile da comprendere. Ognuno poi ha la sua teoria e si tende a categorizzare, quando invece non è possibile perché ogni evento di questo tipo è diverso dall’altro. Non si può dire che i giovani oggi siano più infelici: magari è vero, ma questo caso non nasce da un’infelicità. È nato da qualcosa di completamente diverso, che io non so, che probabilmente non sai neanche tu, e che in questo momento nessuno sa. Devo dire che i magistrati, in questo caso, sono stati molto prudenti e attenti, hanno detto cose ragionevoli. Questo accade spesso con i magistrati che si occupano di minori, perché hanno un approccio diverso rispetto alla comunicazione.