C’è una particolare crudeltà, ma anche una grande lezione di politica e di vita, nella scelta di assestare il colpo di grazia al fondatore del Movimento 5 stelle proprio dalle pagine dell’ultimo libro di Bruno Vespa, attraverso l’antico rituale delle sue immancabili anticipazioni alla stampa. È l’ultima profanazione dell’antica liturgia grillina, un po’ come se dieci anni fa Matteo Renzi avesse annunciato l’espulsione di Pier Luigi Bersani dal Partito democratico durante il suo monologo ad Amici, con ancora indosso il celebre giubbotto di Fonzie.
È una scelta che conferma la sicurezza di un leader, Giuseppe Conte, che sente di avere ormai il pieno controllo della situazione, perché sa di avere già vinto la partita. Sin da quando è riuscito a convincere Beppe Grillo – ma non dev’essere stato troppo difficile – ad accettare un assurdo ruolo da comunicatore a contratto per il partito da lui fondato, tanto oneroso per l’organizzazione (300 mila euro) quanto esiziale per la sua immagine.
Un’altra nemesi, ripensando alle origini di un movimento nato come una gigantesca operazione di marketing attorno a lui, ai suoi tour, al suo blog, da dove questa singolarissima Wanna Marchi della politica – o per meglio dire dell’antipolitica – è riuscita a venderci di tutto, dalla pallina magica con cui lavare i panni senza detersivo a Danilo Toninelli ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture (uno dei pochi a essergli rimasto fedele, peraltro).
Con questa manovra semplice ed efficace, l’Avvocato del popolo ha dimostrato ancora una volta la sua suprema abilità nello sfruttare le debolezze di alleati e avversari, nell’assecondare le loro aspirazioni mettendole al servizio delle proprie. Un’abilità inversamente proporzionale alla sua capacità di governare, forse anche perché è esattamente la stessa tecnica che utilizza con l’elettorato.
In fondo, cos’altro era il mega contratto da 300 mila euro per non comunicare assolutamente nulla, se non una sorta di super bonus a carico del partito, un super reddito di cittadinanza con cui ridurre il vecchio «padre-padrone» nella posizione di un eterno postulante?
Dietro un’apparente remissività, la stessa con cui si liberò della concorrenza di Giulio Sapelli in quell’assurdo casting per Palazzo Chigi cui si sottopose umilmente nel 2018, questo professore dai modi cerimoniosi nasconde sempre un calcolo esattissimo dei tempi e delle opportunità, come avrebbero imparato presto, a proprie spese, proprio quei suoi primi improbabili esaminatori e talent scout, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Chissà che prima o poi non lo imparino anche i suoi numerosi estimatori nella sinistra.