Il parlamento italiano ha approvato in via definitiva la norma che qualifica la maternità surrogata come reato universale, con la conseguenza di sanzioni penali e pecuniarie non solo per chi ricorre a questa pratica in Italia – dove è illegale dal 2004 in base alla legge 40 sulla procreazione assistita – ma anche per chi vi ricorra in Paesi in cui è legale, come, per esempio, numerosi stati americani e il Canada. Al di là delle considerazioni tecnico-giuridiche sull’elusione del principio della doppia incriminazione da parte della legge appena approvata (ovvero, il principio giuridico secondo cui un cittadino italiano può essere perseguito in Italia penalmente per un comportamento attuato all’estero solo se tale comportamento è reato sia in Italia sia nel paese in questione), e a prescindere dalla retorica che accompagna il provvedimento, forse è opportuno provare a ricapitolare i termini della complessa questione della maternità surrogata.
Intanto è interessante rimarcare come sotto il profilo dello schieramento politico le opinioni siano trasversali. Se per lo più i favorevoli possono essere ascritti alla sinistra, nondimeno ci sono importanti settori del mondo femminista che, in una malintesa e paternalistica concezione di tutela della condizione femminile, esprimono la loro contrarietà, operando così un singolare scivolamento da «l’utero è mio e me lo gestisco io» al voler gestire anche l’utero altrui. Incidentalmente, sulla deriva di parte del femminismo italiano, e non solo italiano, dovrebbe essere sviluppato un ragionamento specifico, con riguardo anche alla carenza di precise e decise prese di posizione rispetto agli stupri di guerra perpetrati da Hamas il 7 ottobre 2023 o rispetto alla lotta per l’emancipazione femminile portata avanti a carissimo prezzo dalle donne iraniane.
A destra, per lo più prevale la contrarietà in nome di principi riconducibili a una visione religiosa o comunque tradizionale dell’essere umano e della sua relazione con la propria fisicità, ma c’è ugualmente chi in ragione di un coerente richiamo a principi liberali e laici ritiene che la maternità surrogata non debba essere vietata.
Gli avversari di questa pratica, detta anche gestazione per altri o, spregiativamente, «utero in affitto», brandiscono principalmente l’argomento dello sfruttamento della donna gestante, cui affiancano quello dell’insussistenza del diritto ad avere figli.
Va innanzitutto osservato che è un errore affrontare la questione della gestazione per altri imperniandola sul profilo dello sfruttamento. Là dove il problema è lo sfruttamento, è contro lo sfruttamento che si deve combattere, non contro la gestazione per altri, cui lo sfruttamento, di per sé, non è connaturato, visto, tra l’altro, che ci sono stati anche tanti casi di gratuità. Anche sugli organi umani esistono rischi analoghi e di ben maggiore portata, tanto che da decenni è in corso l’orrenda pratica del traffico di organi. Ma non per questo si sostiene che i trapianti debbano essere vietati.
In ogni caso, prodromico alla formulazione di un parere è il chiarimento concettuale dei termini del problema. Si può con vari argomenti ritenere che la gestazione per altri non sia cosa bella o buona, decorosa o elegante, solidale o dignitosa. Tuttavia, in ordine a questi profili etici, esistenziali, estetici, è sul piano individuale che ognuno può dare la propria risposta, e sempre sul piano individuale si regolerà di conseguenza. Ma l’orientamento individuale, anche quando largamente diffuso, non può essere posto a fondamento di una regola generale coercitiva.
Quanto poi alla considerazione che non sussista un diritto ad avere figli, in sé è fondata. Ma non è pertinente. Il tema, infatti, non è il diritto, genericamente inteso, ad avere figli, bensì la liceità di una specifica pratica volta allo scopo. Non tutto ciò che non è un diritto infatti è illecito, e molte cose che noi facciamo e pratichiamo diffusamente sono lecite, ma, propriamente parlando, non costituiscono un diritto, ovvero non configurano il dovere di altri di assicurarci ciò che noi lecitamente desideriamo. Dunque, la questione del diritto ad avere figli, in riferimento alla maternità surrogata, è mal posta, mentre è appropriato, ribaltando la prospettiva degli avversari della gestazione per altri, porre il tema del fondamento del diritto dello Stato di vietare il riscorso a questa pratica. Se non c’è un diritto ad avere figli, si deve comunque essere liberi di ricorrere agli strumenti che possano consentirlo, purché non ledano i diritti di alcuno.
La gestazione per altri in una società liberale non può configurarsi altrimenti che come pratica che vede il concorso di adulti consenzienti, consapevoli e informati, ovvero capaci di decidere in autonomia. È possibile anche ipotizzare che occorra un ulteriore importante requisito, ovvero che si dia prova sul piano psicologico ed esistenziale di essere persone all’altezza di questa situazione, comunque molto particolare e delicata, analogamente a quanto avviene per le adozioni.
Trattandosi di una pratica con implicazioni complesse e delicate sotto diversi profili, non si può pensare di liberalizzarla. Occorre invece che si possa agire in un quadro dettagliato e chiaro di regole legali e contrattuali a tutela di tutte le parti in causa, nascituro incluso ovviamente, nonché in una condizione di massima sicurezza medico-sanitaria. Dal momento in cui tale pratica, ove rigorosamente regolamentata, non riguarda nessun altro se non i diretti interessati perché non lede in alcun modo la sfera di terzi, quale può essere un motivo, razionalmente argomentato e fondato, per cui essa debba essere vietata dalla legge dello Stato, la quale, diversamente dalla censura morale, dal precetto religioso, dalla regola estetica, di buon gusto, o dall’etichetta, è coercitiva e vincolante per tutti?
La realtà è che un motivo che non sia di carattere squisitamente morale, o che non risponda a una visione religiosa o comunque a una certa antropologia filosofica, non c’è. Il divieto legale, che non è chiaro quale bene sia volto a tutelare, va a ledere l’autonomia dell’individuo, che con piglio paternalistico e autoritario viene arbitrariamente messo in una condizione di minorità decisionale, nel senso che con riferimento alla potenziale gestante, qualcuno ha deciso al posto di lei che lei è in ogni caso una sfruttata sul piano economico o addirittura un’abusata sul piano fisico e affettivo, e che quindi il meglio per lei sia di astenersi, per obbligo di legge, dal diventare una gestante per altri, qualunque cosa lei voglia o pensi o senta al riguardo.
Meno che mai appaiono convincenti le ipotesi, del tutto aleatorie e congetturali in quanto prive di riscontri statistici, sul trauma che il neonato subirebbe in seguito all’allontanamento da colei che lo ha partorito e che, è bene ribadirlo, non è la madre, giacché l’ovulo, almeno nella grande maggioranza dei casi, non è quello della gestante. E non sono convincenti non solo perché non suffragate da riscontri oggettivi, cioè perché le indagini condotte sui nati da gestazione per altri non sembrano indicare criticità specifiche, ma anche perché la tutela che si pretenderebbe di esercitare a loro benefico avrebbe come esito l’impossibilità che nascano, che è un modo ben strano di essere tutelati. Infatti, non è che il nato per gestazione per altri avesse l’alternativa di nascere altrimenti. In assenza della possibilità che si ricorra alla gestazione per altri, semplicemente non sarebbe nato. E anche a voler ammettere che la nascita attraverso la gestazione per altri sia un modo sub ottimale di venire al mondo, non lo è certo fino al punto che non nascere sia preferibile.
In questa prospettiva, un divieto assoluto, peraltro in vigore anche in tanti Stati occidentali a ordinamento liberaldemocratico, costituisce un’interferenza del legislatore sul corpo, sugli affetti e sulle scelte delle persone che di per sé è del tutto inaccettabile nell’ambito della liberaldemocrazia e più consona allo Stato etico. Nondimeno, va ribadito, nessuna deregulation è ipotizzabile. Per cui devono essere messi dei paletti.
Tra i limiti da stabilire, per esempio, dovrebbe senz’altro esserci quello per cui la surrogazione dovrebbe riguardare unicamente la gestazione del feto, nel senso che quest’ultimo non deve essere concepito con il gamete della gestante. In altri termini, non si deve poter vendere il proprio figlio e la remunerazione deve essere la contropartita della sola prestazione della gestazione. In questo senso la polemica contro la mercificazione del corpo della donna è moralistica e non coglie nel segno. La gestante non vende il proprio corpo, e meno che mai un bambino, ma effettua una prestazione, sia pure di natura molto particolare e dalle rilevanti implicazioni psicologiche ed esistenziali per sé e per altri soggetti.
Naturalmente, ben vengano i casi di gratuità, ovvero di gestazione solidale, che pure si sono verificati da parte di parenti e amiche di persone intenzionate ad avere figli ma impossibilitate a farlo. In ogni caso, no alla maternità surrogata per concepimento e gestazione, e sì alla maternità per sola gestazione.
La gestante insomma non deve essere la madre genetica del feto, ovvero a disposizione dei committenti può mettere la propria capacità di portare a termine una gravidanza, ma non fornire il proprio gamete. In questo senso il termine gestazione per altri appare più appropriata di maternità surrogata, in quanto, dal punto di vista genetico, oltre che sociale, la gestante non è la madre, ancorché il codice civile, risalente a epoca ben anteriore agli sviluppi biotecnologici, stabilisca che è madre colei che partorisce.
Come altro limite si potrebbe ipotizzare una soglia massima al numero di surrogazioni sia per la gestante che per la madre cromosomica. Vanno altresì regolati oculatamente anche i termini del compenso da corrispondere alla gestante. E soprattutto si deve stabilire che la gestante rimanga comunque padrona del proprio corpo, ovvero che possa anche decidere di interrompere la gravidanza, pur con la definizione di penali civilistiche in caso di inadempimenti contrattuali (pacta sunt servanda vale sempre), salvo naturalmente i casi di forza maggiore. Altre condizioni e limiti possono essere previsti, purché giustificati. Ma vietarla per legge è un arbitrio illiberale.
In ogni caso, per tornare alla gestazione per altri quale reato universale, la legge appena approvata non è certo il termine della vicenda, bensì solo l’inizio, proprio in ragione delle notevoli criticità giuridiche che sembra implicare. Un esempio tra i tanti possibili: che cosa succederebbe quando mettessero sotto accusa in Italia una persona con doppia cittadinanza, per esempio italiana e americana, che in California è ricorsa alla maternità surrogata, da quelle parti perfettamente legale? Cioè un cittadino americano che ha adottato negli Stati Uniti un comportamento assolutamente legale, in Italia verrebbe perseguito dalla legge solo perché anche cittadino italiano?
Vedremo, quando sarà il caso e secondo i casi, cosa stabiliranno la nostra Corte costituzionale, la Corte di giustizia dell’Unione europea, e la Corte europea dei diritti dell’uomo. Le quali, è bene precisarlo, nel caso, saranno chiamate a dire la loro sulla maternità surrogata quale reato universale e non già su altri profili della questione.