Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E dal 25 novembre anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.
Otto anni fa, era il 2016, Donald Trump sconfisse Hillary Clinton e mise fine all’era clintoniana del Partito democratico, quel centrismo progressista proiettato verso il futuro («non smettiamo di pensare al domani») capace di triangolare con alcune istanze conservatrici («l’era dello statalismo è finita») e con l’innovazione tecnologica («le autostrade dell’informatica»). Il 5 novembre 2024, Trump ha chiuso definitivamente anche l’era obamiana.
Barack Obama ha dominato la politica democratica degli ultimi quindici anni, prima da presidente e poi da celebrità più che da ex statista. L’obamismo è stata una miscela di cambiamento profetico, di speranza messianica e di realismo geopolitico indirizzato ad amministrare il declino americano, una formula politica che negli Stati Uniti ha funzionato soltanto quando l’interprete era lui stesso. Senza Obama, l’obamismo non è replicabile; senza Obama, l’obamismo produce disfatte.
È stato Obama a convincere Joe Biden a non candidarsi nel 2016, e a preferirgli Hillary Clinton; e, questa estate, è stato Obama l’architetto della destituzione di Joe Biden e della sua sostituzione con Kamala Harris, presentata da Obama come la nuova stella del partito durante la Convention democratica di Charlotte del 2012. Nel 2020 ci aveva pensato Joe Biden a salvare il Partito democratico declintonizzato, aggiungendo alla sua esperienza sia l’anima clintoniana sia quella obamiana per sconfiggere Trump.
Questa volta, archiviata l’era Obama e consegnato l’ex presidente al rango di stella hollywoodiana, non c’è un altro grande vecchio, autorevole e moderato come Joe Biden, in grado di tirar fuori dai guai il Partito democratico. I Democratici possono contare su un gruppo di politici brillanti e di talento: Hakeem Jeffries, Wes Moore, Gretchen Whitmer, Pete Buttigieg e Ritchie Torres, ma dopo le dimensioni della vittoria di Trump di quest’anno è improbabile che nel 2028 sceglieranno il proprio candidato pescandolo da questo elenco che è composto da due neri, una donna, un omosessuale e un afro-latino omosessuale filo israeliano. Gavin Newsom? Un altro super liberal della California?
Per i Democratici, non solo americani, comincia una lunga traversata nel deserto del Maga nel tentativo di approdare a un’alternativa credibile al trumpismo senza perdere di vista, intanto, la difesa dello Stato di diritto, e combattendo quel senso di perdita e di confusione legato al lento slouching towards Moscow, per parafrasare William Butler Yeats e Joan Didion, cioè all’inesorabile trascinamento dell’America verso un modello autocratico.
Negli Stati Uniti è già cominciato un dibattito fesso e sterile, tipo quello residente nei talk show italiani, con una curva che spinge il Partito democratico ulteriormente a sinistra e l’altra convinta che si vinca al centro. Il dibattito è fesso perché è evidente che Kamala Harris abbia perso perché è stata etichettata in modo efficace da Trump come una radicale di sinistra, anche se non lo è, costretta suo malgrado nel buco nero della politica identitaria e di genere in cui da anni si sono infilati i Democratici.
Il dibattito è anche sterile perché non basta, e soprattutto non vuol dire niente, sostenere che si vince al centro: al centro, d’accordo, ma per fare che cosa? Ecco, nessuno sa che cosa fare. Nessuno sa come affrontare il populismo, i demagoghi, i picchiatelli. Nessuno ha idea di come si costruisca un’alternativa agli imbroglioni. La razionalità non esiste più in una società che ha sbriciolato i corpi intermedi che tenevano insieme tutta la baracca sociale. Una volta c’erano i partiti, i giornali, i sindacati, la Chiesa, la famiglia, ma a poco a poco in nome della modernità li abbiamo polverizzati.
La disintermediazione, accelerata dal modello di business dei social e da certe idee malsane, ha reso ininfluenti i corpi intermedi, mentre il discorso pubblico è stato sostituito da post verità e fake news ingegnerizzate da algoritmi scritti appositamente per manipolare il consenso nel modo più veloce ed efficace possibile. Harris è stata sconfitta perché non è riuscita a svincolarsi dall’eredità di Biden sull’economia, la prima preoccupazione per gli americani che hanno votato il 5 novembre. Eppure, l’economia americana è in uno stato di salute eccellente: il Prodotto interno lordo vola, il divario con la Cina si è ampliato e non si parla nemmeno più lontanamente di sorpasso cinese, lo scambio di azioni a Wall Street è ai massimi storici, la disoccupazione ai minimi, il salario medio dello Stato più povero d’America, l’Alabama, è maggiore del salario medio dei lavoratori del Regno Unito, del Canada e della Germania.
Ma queste sono soltanto statistiche, grafici, curve, analisi, ciò che si percepisce invece è l’aumento del costo delle uova, della carne, della vita quotidiana. L’inflazione post Covid ha abbattuto Biden e Harris, anche se non ne sono del tutto responsabili, anche se sono riusciti a contenerla rispetto agli anni di Trump, che infatti fu sconfitto da Biden, anche se la causa dei rincari, oltre al Covid, è stata anche la distribuzione di denaro pubblico che fece Trump, inviando un assegno da mille dollari con la sua firma a tutti gli americani. Ma la percezione è diversa, la responsabilità è di chi governa specie se lo dicono i social, e ciò che conta oggi è soltanto la percezione, perché il rincaro dei prezzi è una cosa visibile, tangibile, sotto gli occhi di tutti ogni giorno, anche grazie a manipolatorie campagne di persuasione.
L’elettore razionale non esiste più, pretendere che i temi di cui si parla possano essere argomentati e discussi in modo civile, o che possano favorire riflessioni e altre cose tardo novecentesche, è un’illusione impossibile da scartare per chi non si rassegna a urla e intimidazioni, per chi non si appella ai peggiori istinti della natura umana ma preferisce sempre e comunque ispirarsi ai «better angels of our nature» di cui parlò Abramo Lincoln nel discorso di inaugurazione del suo primo mandato nel 1861 (il presidente che abolì la schiavitù del quale Trump è riuscito a dire che per i neri ha fatto meno di lui).
Insistere sulla razionalità dell’elettorato è un comprensibile riflesso condizionato, nonostante le battaglie per il consenso ormai siano un altro sport. Già nel 2020, per esempio, si pensava che con la sconfitta inflitta da Biden a Trump il mondo sarebbe tornato a qualcosa di simile a com’era prima del 2016. E, invece, Trump non solo è riuscito a farsi rieleggere, dopo peraltro aver assaltato il Congresso, ma ha anche vinto in un modo netto.
Il punto è che una ricetta alternativa al populismo dell’uomo forte non è stata ancora immaginata, non c’è, e nessuno sembra pronto a offrire un rimedio. Ogni tanto pare che si trovino gli ingredienti giusti, ma i rari momenti di luce sono spesso dovuti al carisma di qualche singolo personaggio, Emmanuel Macron, Joe Biden, Mario Draghi, beninteso prima che le bugie e le demagogie travolgano inesorabilmente anche loro.
Che fare, dunque? La reazione naturale è quella di alzare il livello di disprezzo per i populisti, di disgusto per i seguaci del fascismo del XXI secolo, e di abbandonarsi a una rassegnazione apocalittica, come se non ci fosse niente da fare contro una società che acclama un golpista (per tacere di tutte le altre cose). L’altra reazione, più razionale, è quella di non abbattersi, di continuare a difendere lo Stato di diritto, di affrontare in modo diverso i temi economici di tutti i giorni, quelli della sicurezza e quelli dell’immigrazione clandestina.
Temo che nessuna delle due sia una risposta esaustiva. Va benissimo studiare un modo credibile e rispettabile per affrontare i temi reali, e abbandonare quelli legati ai pronomi e all’identità sessuale percepita e diversa da quella biologica, ma bisogna essere consapevoli che la democrazia liberale è sul punto di crollare sotto i colpi non solo delle autocrazie internazionali, che in queste settimane festeggiano l’ascesa di un loro sodale alla Casa Bianca, ma anche a causa di una fonte endogena delle società occidentali.
A indebolire dall’interno le democrazie liberali c’è un movimento finanziato da oligarchi metà reazionari e metà hippie, pienamente profittatori di privilegi di regime, che considera incompatibili libertà e democrazia. Un movimento che ora ha anche le leve del potere politico, oltre che i mezzi per sostituire il modello democratico e liberale con una forma di democrazia illiberale.
Il vecchio adagio di Winston Churchill, secondo cui la democrazia liberale è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre, non vale più. Piacciono altri modelli, le autocrazie e gli uomini forti. Forse Churchill è stato letto tramite un sunto di Chatgpt4, e di quella massima così precisa su un modello che ha garantito, e ampliato, pace e libertà per ottant’anni, è rimasta solo la parte sulla democrazia come peggior forma di governo. Una cattiva sintesi della frase di Churchill, ma una perfetta analisi della società contemporanea.
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