Erano circa le 6.30 di domenica 4 novembre 1979 quando alcune centinaia di studenti e attivisti iraniani assaltarono l’ambasciata americana a Teheran. I pasdaran di guardia fuori dall’edificio non opposero resistenza e i marines addetti al servizio di sorveglianza, dotati di candelotti lacrimogeni, faticarono a respingerli. In appena tre ore i rivoltosi riuscirono a entrare. Presero possesso dell’ambasciata e fecero prigionieri i funzionari presenti. Poi rintracciarono quelli che si trovavano altrove e li catturarono. Quel giorno gli studenti islamisti avevano tra le mani sessantasei ostaggi.
Nelle settimane seguenti, tredici americani, donne e neri, vennero rilasciati in quanto appartenenti a «minoranze oppresse», stando a quanto dichiarato dai manifestanti. A luglio dell’anno successivo ottenne la libertà anche un uomo bianco che si era ammalato di sclerosi multipla. Poco prima, il 24 aprile, le forze speciali americane avevano provato a liberare gli ostaggi con una missione segreta. L’operazione, denominata Eagle Claw (“Artiglio dell’Aquila”), fu però un fiasco: due tempeste di sabbia e diversi guasti tecnici impedirono agli otto elicotteri della marina statunitense di raggiungere Teheran. E così i restanti cinquantadue ostaggi rimasero prigionieri nell’ambasciata per quattrocentoquarantaquattro giorni, fino al 20 gennaio 1981, quando vennero liberati al termine di difficili trattative diplomatiche.
I fatti del 4 novembre 1979 segnarono l’inizio della lunga storia di contrasti politici tra Teheran e Washington. Erano passati appena nove mesi da quando l’imam Ruhollah Khomeini aveva dato vita alla Repubblica Islamica in Iran, deponendo lo scià Mohammad Reza Pahlavi. Per gli ayatollah al potere l’occupazione dell’ambasciata e la cattura dei cittadini americani rappresentavano il primo colpo inferto al «Grande Satana» – come la Guida Suprema definiva la potenza occidentale. Per gli Stati Uniti, invece, l’inevitabile rottura dei rapporti con l’ex monarchia mediorientale e l’avvio di una serie di sanzioni commerciali che miravano a isolare l’Iran dai mercati globali. Ancora oggi, a distanza di quarantacinque anni, osserviamo gli effetti di quella che passò alla storia come “crisi degli ostaggi”.
L’evento fu un colpo durissimo per gli americani. Nelle ore successive al sequestro le televisioni statunitensi trasmisero le immagini dei funzionari bendati e tenuti in ostaggio. Le condizioni degli «ospiti» (così erano chiamati gli ostaggi dai rivoltosi) erano pessime: si verificarono finte esecuzioni, pestaggi e lunghi periodi di isolamento; i prigionieri erano legati o ammanettati per molto tempo; si registrano almeno due tentativi di suicidio e quattro di fuga.
Vennero poi avanzate richieste di liberazione degli ostaggi dai funzionari dell’amministrazione Carter. I manifestanti islamisti chiesero che in cambio venisse riconsegnato loro lo scià deposto, Mohammad Reza Pahlavi, che da due settimane si trovava a New York per farsi curare un grave linfoma in una clinica specializzata. Volevano giudicarlo per i «crimini contro il popolo iraniano». Volevano la sua testa.
Nonostante la vittoria della Rivoluzione islamica e le gravi condizioni di salute dello scià, infatti, molti rivoluzionari ritenevano che gli Stati Uniti stessero tramando per restaurare la monarchia. Era ancora vivo in molti iraniani il bruciante ricordo del colpo di Stato ordito sedici anni prima dai servizi americani e britannici a Teheran: l’operazione “Ajax” del febbraio 1953, condotta con il consenso dello scià Mohammad Reza Pahlavi, portò alla destituzione del primo ministro Mohammed Mossadegh, responsabile della nazionalizzazione dell’industria petrolifera del Paese, e ripristinò i poteri della monarchia. Inoltre, non erano state dimenticate le torture inflitte agli oppositori dello Stato dalla Savak, la polizia segreta dello scià addestrata e assistita dalla Cia. Per questo, l’ambasciata statunitense era considerata da molti iraniani un «covo di spie».
L’amicizia tra lo scià e i presidenti americani era un fatto noto da tempo. Nel 1963 in Iran aveva avuto luogo la “rivoluzione bianca”, una serie di riforme suggerite dall’amministrazione Kennedy per scongiurare il pericolo di colpi di mano di matrice comunista. Si trattava di un’iniziativa volta a modernizzare il Paese e renderlo più simile ai partner occidentali. Tra le diverse riforme introdotte dalle scià, ad esempio, ce n’era una che prevedeva il diritto di voto per le donne e un’altra che limitava la poligamia. Questa repentina occidentalizzazione dell’Iran provocò l’opposizione del clero conservatore e il risentimento della categoria dei mercanti, molto influente a livello nazionale.
La goccia che fece traboccare il vaso fu la proposta dello scià di procedere a ulteriori acquisti di forniture militari negli Stati Uniti e a concedere l’immunità diplomatica ai cittadini americani presenti in Iran. Un atto che consacrava definitivamente l’alleanza tra Teheran e Washington. Nei mesi successivi, il dissenso nei confronti della monarchia si espresse attraverso diverse proteste, che vennero represse duramente dalle forze di sicurezza. È in questo contesto che Khomeini, allora un semplice mullah di Qom, venne mandato in esilio in Turchia. Negli anni successivi si spostò a Najaf, in Iraq, e a Parigi. Da qui fece recapitare clandestinamente in patria delle audiocassette di propaganda contro la monarchia e l’Occidente.
Nel frattempo in Iran la situazione si era fatta sempre più insostenibile per lo scià. Le crisi petrolifere del 1973 e del 1976 e la cattiva gestione economica della classe dirigente avevano fatto aumentare l’inflazione e la disoccupazione nel Paese, generando un clima di forte malumore nei confronti dell’istituzione monarchica. A partire dal maggio 1977 diversi intellettuali cominciarono a protestare, chiedendo maggiore libertà. A novembre fu il turno degli studenti, e nel gennaio 1978 anche gli esponenti del clero sciita scesero in piazza contro il governo.
L’evento che fece deflagrare irrimediabilmente la rabbia popolare contro lo scià fu l’incendio al cinema Rex di Abadan, del 19 agosto, in cui morirono oltre quattrocento persone. In quell’occasione gli oppositori di Pahlavi accusarono la Savak di aver appiccato il fuoco in sala al fine di screditare il clero contrario alla diffusione della cinematografia occidentale. In realtà, come si scoprì poi, la responsabilità della strage era dei religiosi. Ma in quel momento la verità passò in secondo piano, calpestata dalla crescente collera degli oppositori della monarchia.
Da quando rimise piede in Iran, il primo febbraio 1979, Khomeini seppe sfruttare la diffusa contestazione verso lo scià – che a gennaio era fuggito dall’Iran assieme alla moglie Farah Diba – per legittimare il suo insediamento al potere. Nei suoi discorsi alla nazione puntava il dito contro i Pahlavi e l’Occidente corrotto, e prospettava una rinascita del Paese sotto l’egida del Corano.
Uno di questi sermoni venne pronunciato appena tre giorni prima dell’assalto all’ambasciata, il primo novembre 1979. In quell’occasione, la Guida Suprema accusava lo scià e gli Stati Uniti di essere responsabili dei problemi del Paese. In merito alla responsabilità effettive della Repubblica Islamica nei fatti all’ambasciata gli storici si dividono. Se da un lato, infatti, l’azione venne condotta sull’onda di uno spontaneo entusiasmo rivoluzionario, dall’altro il fatto che i manifestanti possedessero una mappa dell’edificio fa pensare che ci fosse stata una scrupolosa pianificazione. Ad ogni modo, Khomeini seppe sfruttare – ancora una volta – l’occasione a proprio vantaggio: nelle ore successive all’assalto dell’edificio statunitense, elogiò pubblicamente l’azione dei rivoltosi e fece una telefonata al leader degli studenti per congratularsi.
Per un anno e tre mesi Khomeini tenne sotto scacco il grande rivale occidentale. L’occupazione dell’ambasciata e il fallimento dell’Eagle Claw accentuarono il fervore e il radicalismo degli ayatollah. Sul fronte interno statunitense, invece, la “crisi degli ostaggi” alimentò per diversi anni il risentimento nei confronti della Repubblica Islamica e degli iraniani in generale. Fu un’umiliazione difficile da digerire, tant’è che nel gennaio 2020 – in seguito all’assassinio del generale Qassem Soleimani – Donald Trump ha minacciato di bombardare cinquantadue siti iraniani culturalmente rilevanti (cinquantadue come gli ostaggi) nel caso in cui i pasdaran avessero deciso di vendicare l’uccisione del capo delle forze Quds.
Oggi, alla vigilia delle elezioni presidenziali americane, l’ex presidente degli Stati Uniti non ha cambiato la sua posizione nei confronti della Repubblica Islamica. Se da un lato, infatti, Trump ha sempre cercato di attirarsi le simpatie degli iraniani dissidenti al regime teocratico mostrandosi dalla loro parte, dall’altro ha continuato a usare toni incendiari per riferirsi alla leadership di Teheran.
Lo scorso 3 ottobre, due giorni dopo l’attacco iraniano su Israele, ha criticato duramente il presidente Joe Biden per aver affermato che Tel Aviv non dovrebbe prendere di mira i siti nucleari iraniani. «Voglio dire, è la cosa più folle che abbia mai sentito», ha detto. «Il rischio più grande che abbiamo è il nucleare. Presto [gli iraniani] avranno le armi nucleari. E allora avremo dei problemi». Ha poi corretto le parole di Biden: «La risposta doveva essere: colpite il nucleare prima e preoccupatevi poi».