Il paradosso dei paradossi di questa campagna elettorale è che Donald Trump sta acquisendo consenso in una crescente quota di elettori appartenenti alle minoranze. In questi mesi sempre più americani latinos, neri e arabi sembrano preferire Trump a Harris. Nel 2020, ad esempio, il sostegno dei neri per Joe Biden era al novantadue per cento, mentre oggi è al settantotto – a fronte di un sorprendente quindici per cento per Trump. Situazione analoga per i latinos: sessantatré per centro per il candidato democratico di quattro anni fa, cinquantasei per cento per quella attuale – e ben trentasette per cento per il rivale. Il voto della comunità araba nel Michigan, uno dei sette swing states americani, risulta addirittura decisivo per la corsa alla Casa Bianca: il quarantatré per cento degli intervistati sostiene Trump, mentre il quarantuno per cento è a favore di Harris.
Eppure, nei comizi di questi mesi il candidato repubblicano ha intensificato la sua retorica razzista nei confronti dei gruppi minoritari. In più occasioni ha infatti pronunciato discorsi xenofobi contro persone immigrate negli Stati Uniti che, a suo dire, sono «geneticamente predisposte a commettere crimini». All’evento di domenica 27 ottobre sul palco del Madison Square Garden, a New York, il comico Tony Hinchcliffe ha definito Porto Rico «un’isola di spazzatura galleggiante» e perpetuato sgradevoli stereotipi riguardanti afroamericani – di fatto, facendo eco alla discriminazione su base razziale portata avanti da Trump.
Questo cortocircuito riguarda anche il gruppo degli iraniani della diaspora, come dimostrato da sondaggi effettuati dal Public Affairs Alliance of Iranian Americans (Paaia). Alla vigilia delle scorse elezioni il trentuno per cento degli iraniani americani aveva dichiarato che avrebbe votato per Trump, mentre il cinquantasei per cento avrebbe scelto Biden. Quattro anni dopo il divario tra i due concorrenti si è accorciato notevolmente: il quarantuno per cento degli intervistati ha dichiarato che voterà per il tycoon, mentre il quarantacinque per cento opterà per Harris. A distanza di una legislatura, quindi, il sostegno a Trump da parte iraniani della diaspora negli Stati Uniti è aumentato di ben quindici punti percentuali.
A differenza di altri gruppi minoritari negli Stati Uniti, tuttavia, gli iraniani della diaspora non avranno un ruolo dirimente sull’esito finale delle elezioni presidenziali. Sono infatti una comunità relativamente esigua nel Paese (un censimento del 2020 ne contava circa cinquecentosettantamila, più o meno lo 0,2 per cento del totale dei cittadini americani) e abitano principalmente in California, Texas, Virginia e New York, Stati dove l’esito elettorale non è in discussione.
Se da un lato il loro voto non peserà più di tanto nella corsa alla Casa Bianca, dall’altro la propensione di una crescente quota di questi a votare per Trump presenta un apparente controsenso, considerato il contesto geopolitico in cui sono coinvolti Iran e Stati Uniti negli ultimi anni. Nel 2018 era stato proprio l’ex presidente americano a ritirarsi unilateralmente dall’accordo sul nucleare (Jcpoa), siglato tre anni prima dall’amministrazione Obama e che prevedeva una diminuzione dell’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran in cambio di un alleggerimento delle sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti. Trump aveva poi reintrodotto i vincoli economici e commerciali antecedenti al 2015, una decisione che aveva provocato un grave isolamento per Teheran sui mercati internazionali.
Invece di colpire la classe dirigente iraniana, la «massima pressione» voluta dal presidente repubblicano aveva finito per erodere la classe media, aumentando il livello di povertà generale nel Paese. Negli anni successivi, infatti, la moneta nazionale ha perso progressivamente valore (oggi un dollaro vale oltre quarantaduemila riyal), mentre l’inflazione è montata a ritmi galoppanti (attualmente si attesta al quarantanove per cento) e il tasso di disoccupazione giovanile è calcolato attorno al venti per cento.
Nonostante gli effetti disastrosi delle politiche di Trump sull’economia dell’Iran, la quota degli iraniani americani che lo sostengono è cresciuta. Come si spiega ciò? A giocare un fattore decisivo nella scelta elettorale di questa minoranza è l’immagine di “uomo forte” che è spesso associata all’ex presidente americano. Un aspetto che in certi casi l’ha reso più appetito rispetto ai rivali democratici Biden e Harris, che alla retorica incendiaria del tycoon hanno sempre preferito il dialogo e l’apertura diplomatica (ne è esempio la decisione dell’attuale amministrazione di allentare la pressione sanzionatoria sull’Iran nei primi due anni della legislatura).
In più di un’occasione Trump si è mostrato intransigente nei confronti della leadership della Repubblica Islamica dell’Iran, risultando così come una figura politica chiave per molti iraniani insofferenti del regime teocratico. Di fatto, «la maggior parte degli iraniani della diaspora nutre risentimento nei confronti della Repubblica Islamica. Questo è uno dei principali motivi per cui hanno lasciato il Paese. Di conseguenza, preferiscono una maggiore pressione sugli ayatollah e pensano che Trump sarà in grado di esercitarla», spiega a Linkiesta Saeid Golkar, Senior Advisor dell’associazione americana United Against Nuclear Iran (Uani).
Nel 2020 è stato Trump a dare l’ordine di uccidere Qassem Soleimani, il generale delle forze Quds, l’unità delle Guardie della Rivoluzione responsabile della diffusione dell’ideologia khomeinista all’estero. In seguito a quell’episodio l’ex presidente americano aveva scritto su X un messaggio in farsi rivolto agli iraniani contrari al regime degli ayatollah: «Al popolo coraggioso e sofferente dell’Iran: sono al vostro fianco dall’inizio della mia presidenza e il mio governo continuerà a stare al vostro fianco. Stiamo seguendo da vicino le vostre proteste. Il vostro coraggio è stimolante».
Recentemente, nel corso di questa campagna elettorale, Trump ha dichiarato di essere l’uomo giusto per concludere la guerra tra l’Iran e Israele: «Metterò fine al caos in Medio Oriente e impedirò la Terza Guerra Mondiale, qualcosa che posso fare io e che nessun altro sarà in grado di fare, li conosco tutti», aveva detto durante un comizio nelle scorse settimane. Giovedì 18 ottobre, durante una puntata del PBD Podcast, ha affermato che gli piacerebbe «che l’Iran avesse molto successo, l’unica cosa è che non può avere un’arma nucleare». Ma poi sul tema del cambio di regime aveva usato toni più cauti rispetto al solito: «Non possiamo essere totalmente coinvolti in tutto questo. Facciamo persino fatica a gestire noi stessi».
Prima di questo dietrofront imprevisto – e probabilmente non troppo rilevante nel complesso dei suoi discorsi, la lunga campagna di “corteggiamento” di Trump nei confronti degli iraniani stanchi del proprio governo aveva già prodotto dei risultati negli Stati Uniti. Lo scorso 3 settembre, dall’iniziativa delle attiviste iraniane americane Sarah Raviani e Nasim Behrouz, era infatti nato Iranians for Trump, un movimento composto da alcuni iraniani della diaspora finalizzato a promuovere attivamente la candidatura del tycoon. Non è chiaro quante persone in queste settimane abbiamo aderito alla proposta. Si possono comunque intuire le dimensioni del gruppo dai numeri su X: l’account ha oltre quattromilaquattrocento followers e il primo post ha ottenuto duecentounomila visualizzazioni, cinquemilacinquecento mi piace e millecinquecento condivisioni.
«Riteniamo che il presidente Trump sia la migliore opzione per la nostra comunità per sostenere le politiche che vogliamo e di cui abbiamo bisogno per la libertà e la democrazia in Iran e per proteggere e salvaguardare la sicurezza nazionale americana», ha dichiarato Raviani in un’intervista per Iran International, un canale televisivo con sede a Londra. «La disillusione nei confronti dei democratici, la percezione di forza da parte di Trump e la sensazione di un approccio di “pacificazione” nei confronti della Repubblica islamica da parte dell’amministrazione Biden fanno sì che gli iraniani americani gravitino attorno a Trump».
Una simile posizione nei confronti della politica americana ha preso piede anche tra alcuni iraniani in Iran. Il che potrebbe sembrare ancora più paradossale. Se per un iraniano che vive negli Stati Uniti potrebbe risultare più facile – per certi versi – assumere posizioni radicali verso il governo di Teheran, per un iraniano che abita in Iran schierarsi con Trump assume tutt’altro peso. Intanto perché significherebbe non credere affatto alla possibilità di un ipotetico accordo sul nucleare con gli Stati Uniti. E poi perché ciò implicherebbe affidarsi alla persona che ha demolito l’economia iraniana, reintroducendo le sanzioni antecedenti al 2015.
«Sono sicura al cento per cento che l’elezione di Trump negli Stati Uniti possa essere una cosa buona per il nostro Paese», dice a Linkiesta una donna residente a Teheran appartenente al movimento Donna, Vita, Libertà, che ha chiesto di rimanere anonima per motivi di sicurezza. «È l’unica persona che può sostenere gli oppositori al regime e che può porre fine alla violenza dei mullah una volta per tutte».
Attraverso degli audio Whatsapp ci racconta come ha vissuto per quarantacinque anni sotto il giogo della Repubblica Islamica. Quando le viene chiesto di esprimersi sull’operato di Barack Obama e Biden nei confronti del suo Paese, dice che i due presidenti democratici hanno collaborato «dietro la tenda» (un’espressione tipicamente iraniana) con la leadership religiosa per conservare lo status quo e che quindi ora prova una profonda sfiducia nei confronti di Harris.
Non ci sono sondaggi che dimostrino l’estensione di questa posizione nel Paese. Tuttavia, come spiega Golkar, è molto probabile che «Trump sia apprezzato dalla maggior parte degli iraniani che soffrono sotto la Repubblica islamica, e anche dalle persone che vivono nelle zone rurali e nelle piccole città. Già nel 2020, in molti lo sostenevano fortemente e speravano nella sua rielezione. E anche quest’anno risulta l’“uomo forte” capace di tenere testa agli ayatollah».
Resta da capire se Trump sia davvero in grado di soddisfare le richieste degli iraniani. Luigi Toninelli, Assistente di ricerca dell’Ispi per l’area Medio Oriente, ritiene che, in caso di rielezione, «l’ex presidente americano riproporrà sanzioni economiche nei confronti dell’Iran, come aveva fatto nel 2018. Di fatto, questo è l’unico mezzo a cui potrà ricorrere per ostacolare il regime di Teheran, poiché difficilmente intraprenderà un’azione militare diretta». Se così fosse, una nuova versione della “massima pressione” avrà probabilmente l’effetto di stringere ulteriormente il cappio all’economia del Paese, senza però mutare in alcun modo l’assetto della classe dirigente al potere.