C’è una singolare simmetria tra la stentata partenza della nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen, sostenuta ieri nel parlamento europeo da appena 370 voti, la maggioranza più risicata di sempre, e il primo significativo inciampo – incidente, strappo, spaccatura: scegliete voi la lettura che preferite – incontrato da Giorgia Meloni nel parlamento italiano. Proprio mentre Von der Leyen pagava il prezzo della disinvoltura con cui ha di fatto cambiato la composizione della sua maggioranza, a tutto vantaggio di Meloni, Forza Italia votava con le opposizioni sull’emendamento per tagliare il canone Rai presentato dalla Lega, che si vendicava più tardi votando contro un provvedimento di Forza Italia sulla sanità calabrese. Regione – sono sicuro che i miei attenti lettori lo sanno già, e comunque lo avevano intuito – amministrata da Forza Italia (tu chiamala, se vuoi, autonomia differenziata).
Giustamente, molti commentatori sottolineano il ritrovato protagonismo di Forza Italia e del suo leader Antonio Tajani, in una competizione con la Lega sempre più dura, ma anche il peso degli interessi di Mediaset e della famiglia Berlusconi (tagliare il canone potrebbe spingere la tv pubblica a rivedere i tetti pubblicitari).
Presi come siamo da problemi più stringenti – la guerra, un golpista mancato alla Casa Bianca e un autocrate alla presidenza del semestre europeo, entrambi pubblicamente ammirati dai nostri governanti – si capisce che la ricomparsa del conflitto d’interessi, o meglio la sua eterna e immutabile permanenza, ci faccia quasi tenerezza, come un vecchio mangianastri ritrovato per caso in soffitta. Ma proprio la sua coriacea inamovibilità a me fa pensare che in questo caso, per capire cosa stia succedendo, bisognerebbe guardare più alla Lega, che ha mirato dove sapeva di fare più male, che a Forza Italia, che ha fatto quello che ha sempre fatto e per cui è nata: difendere gli interessi della famiglia Berlusconi.
La domanda, insomma, è se anche qui si nasconda una conseguenza di quella simmetria tra Italia ed Europa da cui eravamo partiti: la divisione della maggioranza (italiana) a Strasburgo, con Forza Italia e Fratelli d’Italia che votano a favore della Commissione Von der Leyen e la Lega che vota contro, assieme al fior fiore dell’estrema destra illiberale guidata dai Patrioti di Viktor Orbán. Anche senza abbandonarsi a parallelismi forse ingannevoli con la precedente legislatura, quando fu proprio nel voto a favore di Von der Leyen da parte del Movimento 5 stelle che si prefigurò la svolta della politica italiana, con il passaggio dei grillini a sinistra (o come vogliamo dire), è difficile immaginare che la nuova situazione non abbia conseguenze, anzitutto in politica estera.
Un campo su cui del resto non mancano significativi scricchiolii, per chi voglia sentirli. Come nota oggi Stefano Cappellini su Repubblica, per fare un solo esempio, alla notizia del mandato di arresto della Corte penale internazionale contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ben tre ministri (di cui due vicepresidenti del Consiglio) hanno preso pubblicamente tre posizioni opposte: «Se Netanyahu venisse in Italia andrebbe arrestato? Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha detto sì, il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha detto no (“Sarebbe il benvenuto”), il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha detto boh (“Valuteremo le carte”)».
Per essere il terreno su cui secondo tutti gli osservatori il governo Meloni darebbe il meglio di sé, la politica estera, non c’è male. In ogni caso, la comparsa di una certa mobilità interna – parlare di pluralismo mi pare eccessivo – anche all’interno della coalizione di centrodestra è senza dubbio un segnale positivo e da non sottovalutare.
Leggi l’articolo di Mario Lavia su questo argomento