Dalla newsletter settimanale di Greenkiesta (ci si iscrive qui) – Partiamo da due fatti. Il primo: alla Casa Bianca tornerà un negazionista climatico, lo stesso che durante il suo primo mandato ha deciso di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi e di abrogare più di cento norme ambientali. Il secondo: i cosiddetti temi “verdi” hanno avuto un ruolo irrilevante all’interno di una campagna elettorale in cui Kamala Harris, che nella sua carriera da procuratrice distrettuale e generale ha sempre mostrato una spiccata sensibilità ambientale, ha deciso scientemente di relegare il riscaldamento globale ai margini delle sue proposte e dichiarazioni.
Il bis di Donald Trump fa paura per una lunga serie di motivi, tra cui il nuovo ruolo degli Stati Uniti nello scacchiere climatico. Il mondo non può pensare di giocare questa partita senza una spinta economica, diplomatica e tecnologica da Washington. Da oggi, ancor prima dell’insediamento in programma a gennaio, i Paesi “climaticamente” più virtuosi hanno un alleato in meno. E non è un alleato qualsiasi, ma una potenza industriale responsabile del 12,6 per cento delle emissioni sulla Terra.
«L’oceano si alzerà. Ma a chi diavolo importa?», ha detto il tycoon a maggio durante un comizio a Milwaukee. È una frase che riassume fedelmente l’approccio indolente, arrogante e antiscientifico di Trump, che continua ad accartocciare indisturbato pagine e pagine di ricerca accademica sul clima. A primo impatto, il suo ritorno può sembrare scioccante, ma trova delle spiegazioni concrete all’interno di una società sempre più povera e diseguale. Una società che concepisce l’ecologia in due modi: come un tema impalpabile o come l’ennesimo sforzo economico richiesto dall’alto. Non è ovviamente così, ma c’è una responsabilità diffusa dietro il posizionamento distorto del clima e dell’ambiente nell’immaginario collettivo: politica, stampa, scienza, imprese, associazionismo.
Trump sarà il presidente del Paese degli uragani Helene e Milton, dei migranti climatici con il portafoglio pieno e dell’Inflation reduction act (Ira), la più importante legge sul clima nella storia degli Stati Uniti. Firmata nell’agosto 2022 da Joe Biden, la norma prevede un investimento da trecentosettanta miliardi di dollari per ridurre le emissioni di gas serra del quaranta per cento entro il 2030 e stimolare la transizione verde nei confini statunitensi, anche e soprattutto dal punto di vista industriale. Trump ha più volte annunciato la volontà, in caso di vittoria alle elezioni presidenziali, di smantellare il provvedimento-simbolo dell’azione climatica di Biden, annullando tutti i fondi inutilizzati dell’Ira.
Il successo del tycoon è un’iniezione di fiducia per l’industria fossile, con cui i repubblicani avrebbero stretto accordi (meno burocrazia, meno regole, meno tasse) in cambio di donazioni per la campagna elettorale. «Drill, baby, drill» (trivella, baby, trivella), è uno dei tanti slogan cavalcati da Donald Trump, che nel suo primo discorso dopo il voto ha ribadito i suoi interessi nell’energia sporca: «Lasciami il petrolio e il gas, Bobby. Noi abbiamo più oro liquido di qualsiasi altro Paese, più dell’Arabia Saudita, più della Russia (gli Usa sono i primi produttori al mondo, ndr). Bobby, stai lontano dal petrolio. Per il resto va bene tutto».
Quel «Bobby» è Robert Kennedy Jr., figlio di Bobby Kennedy e nipote dell’ex presidente statunitense Jfk, che sul petrolio ha idee diverse da Trump, ma non sulla gestione della sanità. L’avvocato ambientale, che ad agosto si è ritirato dalla corsa alla presidenza per sostenere i repubblicani, è un noto no-vax, sposa improbabili teorie del complotto e ha fondato la Children’s health defense, un’organizzazione che vuole allontanare i bambini dalla vaccinazione pediatrica.
È un personaggio pericoloso, criticato anche dai membri della sua famiglia, ma secondo Trump renderà l’America «healthy again». Significa, di fatto, che Robert Kennedy Jr. avrà un ruolo chiave all’interno della nuova amministrazione repubblicana, dove potrebbe occuparsi di salute pubblica (un tema strettamente legato all’inquinamento e al cambiamento climatico). «Gli Stati Uniti diventeranno un posto pericoloso per scienziati, intellettuali e chiunque non si adatti all’agenda repubblicana», ha detto Michael E. Mann, noto climatologo della Pennsylvania State University, al Guardian.
L’altro beniamino e futuro “collega” di Trump è Elon Musk, una mina vagante in grado di stravolgere le dinamiche di potere. Il magnate di Pretoria è Ceo di Tesla, azienda che produce auto elettriche, ma sui temi “verdi” è stato spesso ambiguo e, subito dopo aver acquisito Twitter (oggi X), ha licenziato i due capi del “Sustainability Team”, permettendo ai contenuti negazionisti di proliferare senza freni. Nel giro di pochi mesi, X è diventato un luogo digitale infrequentabile per chi vuole parlare di ecologia, energia e salute.
Ma torniamo a Donald Trump, che reputa il cambiamento climatico «una truffa» e una «bufala». Il tycoon, come ogni populista che si rispetti, cavalcherà i dubbi e le paure dei cittadini comuni, allarmati dai costi di una transizione verde che in realtà allontanerà danni economici ben più ingenti. La fonte di energia più minacciata dal suo ritorno alla Casa Bianca è l’eolico, la rinnovabile più redditizia (genera quasi il dieci per cento dell’elettricità) all’interno di un Paese ancora molto dipendente dai combustibili fossili, in particolare dal gas (41,9 per cento). Secondo Trump, le turbine possono causare il cancro, disorientare le balene e sterminare gli uccelli. Sono tutte affermazioni false o fuorvianti, smentite dalla scienza e volte solo ad alimentare un sentimento di sfiducia all’interno del mercato delle energie pulite.
Secondo le stime di Carbon brief, la vittoria di Trump rischia di porre fine alle speranze di contenere l’aumento della temperatura media globale entro i +1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali (ora siamo a circa +1,2°C). Le politiche ambientali ed energetiche della nuova amministrazione repubblicana, si legge, taglierebbero le emissioni statunitensi solo del ventotto per cento entro il 2030 (rispetto ai livelli del 2005). Si tratta di un risultato ben distante dall’attuale obiettivo nazionale nell’ambito dell’accordo di Parigi (riduzione del cinquanta-cinquantadue per cento).
Trump, scrive Politico, potrebbe ritirare nuovamente gli Usa dallo storico trattato stipulato nel 2015 durante la Cop21. Indiscrezioni ancora più clamorose, ma al momento prive di basi solide, parlano addirittura di un’uscita dalla Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), i cui progressi si misurano ogni anno durante le famose Cop. E a proposito di Cop, lunedì in Azerbaijan comincia la ventinovesima conferenza delle parti dell’Unfccc, dove si parlerà ancora di phase-out dalle fonti fossili, finanza climatica e disuguaglianze. La netta vittoria di Trump avrà un impatto emotivo inevitabile sui negoziati, perché quello che accade negli Stati Uniti non rimane mai negli Stati Uniti. Vale per ogni grande tema, compreso il cambiamento climatico.