L’ottimismo è il cemento e l’ideologia del sogno americano. Gli happy days sono il tratto comune di un popolo dotato di inarrestabile energia, di spirito protestante misto a consumismo pagano, di dinamismo travolgente e di capacità innovativa senza precedenti. David Brooks, anni fa, ha scritto che gli americani sono motivati da una specie di «incanto del Paradiso», dalla sensazione che abbiano un destino straordinario a portata di mano, e che sia possibile pianificarlo.
Brooks ha descritto la capacità americana di guardare il presente dal punto di vista del futuro come la caratteristica principale di un popolo fantasioso e sognatore. Questa è l’America: l’esperimento più audace della civiltà moderna, un esperimento perennemente sottoposto a test sotto sforzo, ma incredibilmente riuscito.
Le elezioni presidenziali americane, per questo motivo, sono un confronto tra candidati, idee, ricette politiche, che alla fine viene inesorabilmente vinto dal candidato più ottimista, più rivolto al futuro, più portatore di idee innovative. La «vision thing», la capacità di concentrarsi su obiettivi di lungo termine – storici, se non addirittura epocali – è ciò che elegge i presidenti degli Stati Uniti.
L’epopea dei diritti civili di John Kennedy e di Lyndon Johnson, per esempio; ma anche il messaggio solare di Ronald Reagan contro il «malessere» post Vietnam e post Watergate di Jimmy Carter; poi «è di nuovo mattina in America» del secondo Reagan; e, ancora, l’entusiasmo tecnologico di Bill Clinton; i Bush del «nuovo ordine mondiale» e della missione democratizzatrice; fino a Barack Obama e alla sua magnetica speranza di costruire una società più equa e giusta.
Donald Trump è l’eccezione alla tradizione, un incantesimo infernale, il primo presidente antiamericano degli Stati Uniti. Ora è il candidato che si appella ai peggiori istinti della natura umana, rinnegando il concetto di «better angels» di Abramo Lincoln.
Trump è il ciambellano dell’American carnage, della «carneficina americana», è uno che descrive gli Stati Uniti come un paese fallito, gli americani come un popolo naufragato, le città come irredimibili, le istituzioni come corrotte, gli avversari politici come «nemici interni», gli alleati internazionali come profittatori, e i nemici storici, invece, come se fossero antichi compagni di calcetto.
I suoi messaggi sono violenti, razzisti, cupi. Trump non è il candidato della redenzione, è il candidato dell’apocalisse, non vede l’America come una nuova Gerusalemme, ha spento le luci sulla città che dalla collina avrebbe dovuto illuminare la via retta, e i suoi «happy days» sono quelli degli anni Cinquanta, con la nostalgia dell’America bianca, e delle donne relegate a casa.
John Meacham, autorevole storico dei padri fondatori americani, ha detto che la situazione che vivono oggi gli Stati Uniti ricorda quella del 1800, quando lo spirito rivoluzionario del 1776 sembrava svanito e Thomas Jefferson, uno dei più influenti tra i padri fondatori, impegnandosi a ripristinare l’anima fondante delle origini diventò l’architetto di una politica, la politica dell’ottimismo, di cui in seguito sono stati campioni Theodore Roosevelt, Abramo Lincoln, Franklin Delano Roosevelt, Ronald Reagan e ora, dice Meacham, Kamala Harris. «Per me è chiarissimo – ha detto Meacham – che Trump non è il candidato delle persone che veneravano Reagan, che hanno votato per i Bush, per McCain e per Romney; e il suo partito repubblicano non è il loro partito».
La politica dell’ottimismo è la tradizione e il futuro dell’America, il Trump 2016 è stato una parentesi, ma scopriremo stanotte se sarà responsabile della fine dell’ottimismo americano. Secondo Jefferson, l’America era «la migliore speranza per il mondo», per Lincoln era «l’ultima migliore speranza per il mondo», per Reagan era «l’ultima migliore speranza per l’uomo sulla Terra», in una graduale costruzione dell’idea che la politica è l’opportunità di costruire il futuro e di edificare una nazione. Trump sostiene di voler rifare grande l’America, ma l’intento è di cancellare il progresso civile consolidato negli anni, e tornare al suo piccolo mondo antico.
«Siamo ottimisti e siamo entusiasti per tutto quello che faremo insieme», ha detto Kamala Harris chiudendo questa notte la campagna elettorale a Philadelphia, «siamo spossati da dieci anni di Donald Trump, è arrivato il momento di voltare pagina». «We’re not going back», indietro non ci torniamo.