Manca soltanto un giorno alle elezioni più importanti della storia recente americana, e anche nostra, ma a questo punto le previsioni sul risultato hanno la precisione scientifica del lancio della monetina: testa o croce, Kamala Harris o Donald Trump? Il voto per posta è cominciato da tempo, e già Trump lamenta brogli e altre fregnacce che userà per scatenare l’inferno se dovesse perdere le elezioni per la seconda volta consecutiva.
L’unica cosa abbastanza certa, ma ininfluente, è che Harris riceverà più voti popolari a livello nazionale di quanti ne prenderà Trump, cosa già successa con Hillary che pur perdendo le elezioni prese quasi tre milioni di voti in più di Trump, e anche con Biden che superò l’allora presidente in carica di cinque milioni di voti.
Il prossimo presidente americano, o antiamericano se vincerà Trump, sarà deciso da pochissime migliaia di voti in sette Stati sui cinquanta che formano l’Unione, anzi in sette piccole contee di sette Stati americani. Negli altri quarantatré Stati i giochi sono pressoché fatti, anche se negli ultimi giorni sono state segnalate possibili, ma improbabili, sorprese come l’Iowa che si sarebbe spostato nella casella di Harris.
Gli imprevisti sono dietro l’angolo, come il Wisconsin che nel 2016 fu vinto da Trump contro la favorita Hillary Clinton, ma la gran parte degli Stati è già assegnata a Trump o a Harris, al punto che in più di mezza America non si svolge quasi per niente la campagna elettorale presidenziale. Ma ricordiamoci che Hillary Clinton, proprio per questo motivo, non andò mai a fare campagna elettorale in Wisconsin, dove poi perse. E nel 2020, sempre in Wisconsin, Biden sembrava diciassette punti avanti, ma batté Trump di poco più di ventimila voti (zero virgola sei per cento in più).
Gli ultimissimi sondaggi (Siena College-New York Times) sembrano tornare a favorire Kamala Harris, ma siamo sempre dentro il margine di errore e, soprattutto, in Pennsylvania i due candidati sono ancora appaiati. Potrebbero esserci colpi di scena, come il Wisconsin 2016 per Trump, e ora l’Iowa, la Georgia e la Carolina del Nord per Kamala, ma restando con i piedi per terra la battaglia principale si giocherà in Pennsylvania, uno Stato che i vecchi strateghi clintoniani, per sottolineare la differenza sociale tra le sue due grandi città e le gigantesche zone rurali, dicevano fosse composto da «Philadelphia e Pittsburgh, con in mezzo l’Alabama». La Pennsylvania è il primo Stato da guardare domani notte per farsi un’idea di come finirà.
Negli anni precedenti la tragedia Trump, ai tempi di George W. Bush e di Barack Obama, le elezioni presidenziali americane si decidevano in Florida e in Ohio, Stati dove si sono svolte campagne politiche, giudiziarie e giornalistiche leggendarie. Ora non più. Florida e Ohio sono zone saldamente repubblicane, pressoché senza speranza per Kamala Harris, e prima di lei anche per Joe Biden e Hillary Clinton.
Questa è la prima concreta evidenza di uno spostamento a destra della mappa elettorale degli Stati Uniti dal Duemila a oggi. I democratici hanno fatto passi da gigante, ma non ancora sufficienti, in altri Stati che in passato consideravano terre ignote: in Georgia dove Joe Biden nel 2020 ha vinto con undicimila voti di scarto e i democratici hanno conquistato seggi, nella Carolina del Nord vinta (soltanto una volta) da Barack Obama e di nuovo in gioco a questo giro, anche grazie a un trumpiano candidato governatore che si è definito «un nazista nero», e in Texas dove l’ampio margine a favore dei repubblicani si assottiglia ogni anno sempre di più per effetto di un riallineamento demografico e sociale.
Il metodo di elezione del presidente è noto, e coerente con la natura federale degli Stati Uniti: un compromesso tra quei padri costituenti che volevano fosse il Congresso a scegliere il presidente e quelli che preferivano un voto popolare nazionale. Per questo in America conta il peso degli Stati più che il voto popolare. Un sistema che sarà anche arcaico, ma che proprio perché immune al fervore dei riformatori seriali delle istituzioni e delle alchimisti elettorali resiste egregiamente da duecentotrentacinque anni.
Ogni Stato americano elegge un numero di Grandi elettori pari al numero dei deputati che invia a Washington, stabilito in proporzione al numero degli abitanti secondo l’ultimo censimento, più i due senatori che spettano a tutti gli Stati a prescindere dal numero di abitanti. I Grandi elettori in totale quindi sono 538, un numero composto dai 435 membri della Camera, più tre rappresentanti del Distretto di Columbia (la città di Washington), e dai cento senatori.
Diventa presidente degli Stati Uniti chi conquista almeno 270 Grandi Elettori. La distribuzione dei Grandi Elettori dei 43 Stati solidamente democratici o solidamente repubblicani (salvo sorprese) vede Harris in vantaggio con 226, seguita da Trump con 219. I sette Stati in bilico tra Harris e Trump assegneranno i restanti 93 Grandi Elettori: a Kamala ne servono almeno 44, Trump per essere rieletto ha bisogno di ottenerne 51.
I sette Stati che decideranno queste elezioni (tra parentesi il numero di Grandi elettori) sono la Pennsylvania (19), il Michigan (15), il Wisconsin (10), la North Carolina (16), la Georgia (16), l’Arizona (11) e il Nevada (6). Nei primi tre, il cui totale fa 44, ovvero il numero esatto di Grandi Elettori che servono a Kamala, la candidata democratica è in vantaggio, ma con meno dell’uno per cento di scarto, o addirittura pari, quindi ben al di dentro del margine di errore. Lo stesso vale per North Carolina, Nevada e addirittura Georgia (secondo l’ultimo sondaggio di ieri). Altri sondaggi danno a Trump un vantaggio maggiore, intorno al 2 per cento, in Georgia e in Arizona, due Stati che da soli però non gli basterebbero. Messa così sembrerebbe favorita Kamala, ma i margini sono così ristretti da non escludere nessuna altra combinazione.
Nelle ultime settimane è diminuito il vantaggio di Kamala Harris in Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, e è sembrato allontanarsi il colpaccio in Georgia, senonché le ultime rilevazioni e il recupero in North Carolina potrebbero aver cambiato lo scenario, pare grazie alla reazione negativa degli elettori indecisi al raduno di estremisti trumpiani al Madison Square Garden. Eppure gli stessi sondaggi che registrano un recupero di Harris, segnalano anche un suo ulteriore arretramento in Pennsylvania.
Un’analisi ancora più approfondita porta a scendere dal livello statale a quello delle contee che tradizionalmente decidono l’assegnazione dello Stato ai democratici o ai repubblicani. Siamo di nuovo in Pennsylvania, in particolare nella contea di Erie che da qualche tempo in base alle sue scelte finisce per decidere a chi assegnare i grandi elettori dello Stato. I diciannove grandi elettori della Pennsylvania servono più a Kamala che a Trump. Se li perdesse sarebbe quasi certamente eletto Trump, a meno che lei prevalga in Georgia e North Carolina, un’ipotesi possibile ma a quel punto racconteremmo una vittoria a valanga che fin qui non si è percepita.
La strada maestra di Kamala Harris per la Casa Bianca è la tenuta del Blue Wall (Pennsylvania, Michigan, Wisconsin), da sempre l’architrave dei successi democratici da Obama a Biden, i quali poi sono stati capaci di vincere anche in territori avversari. Oggi queste zone industriali e post industriali, chiamate “cintura della ruggine”, sono l’ultima difesa a disposizione di Kamala Harris. Se il muro tiene, sarà eletta presidente; se il muro crolla, il presidente sarà quasi certamente Trump, e si aprirà una nuova era.
Si è parlato poco di temi elettorali e di programmi di governo: quelli di Trump dipendono dal suo umore, quelli di Kamala sono volutamente vaghi per evitare di mostrare troppi punti deboli all’avversario. Trump crede solo in Trump, ed è mosso soltanto dal proprio tornaconto personale. Harris non si capisce per cosa si voglia battere né quale sia la sua filosofia politica. La forza elettorale di Trump sta nella sua capacità di occupare la scena, di lucrare sul malcontento popolare dovuto ai rincari dei beni di prima necessità, di sfruttare la paura di una sostituzione etnica in corso causata dall’immigrazione clandestina, e di interpretare il rigetto nei confronti della politica identitaria e di genere promossa dal mondo liberal. Il punto di forza elettorale di Kamala Harris è il riscatto delle donne dopo la cancellazione del diritto di abortire. La difesa della democrazia e dell’integrità morale della Repubblica è un altro argomento a suo favore, anche se elitario. La cosa più forte resta però la constatazione che Kamala Harris non è Donald Trump.