Tre white cube immaginari dove la creatività è fuori controllo. Gli snowboarder sono artisti e spettatori, spaesati partecipanti al tour guidato, che non hanno altra scelta che abbandonarsi al flusso di coscienza delle somiglianze visive, dei dettagli rivelatori, del misterioso gioco di specchi tra snowboard e arte. È un’immersione affascinante quella regalata da Every Island Has a Name, cortometraggio e progetto artistico di Achille Mauri inserito nell’Arc’teryx Winter Film Tour 2024, l’evento che celebra la montagna con cortometraggi fuori dal comune e che quest’anno per la prima volta ha fatto tappa a Milano.
Le isole del titolo richiamano le diverse parti da cui è composto il progetto visuale: tre luoghi innevati: Alaska, Giappone, e Alpi; tre stanze immaginarie in cui giocare; tre scenari in cui le somiglianze tra snowboard, artigianato e arte sono rivelate da forme e stimoli sempre diversi. «Gli snowboarder (nel film Severin van der Meer, Elena Hight e Jared Elston, ndr), come gli sciatori, secondo me sono dei performer di land art. Per me è davvero la stessa cosa: il modo in cui scendono dai pendii e dialogano con piccoli e grandissimi elementi naturali è una forma di land art pura», racconta a Linkiesta il regista Achille Mauri, che conosce bene entrambi i mondi che prova a far dialogare nella sua opera.
«Ho praticato snowboard fin da quando ero piccolo, era un buon compromesso: mi permetteva di stare in un ambiente naturale pazzesco, e quindi era ben visto da mio padre, ma era anche ribelle quanto lo skateboard, che mi affascinava molto. Gli sport che vivono la strada hanno inevitabilmente tantissimi impulsi a livello visivo e musicale, c’è un linguaggio particolare che sicuramente mi ha contaminato anche dal punto di vista artistico».
«Lo snowboard è uno sport molto libero e in questa libertà è davvero difficile intervenire con una regia. Solitamente quando lavori su un set hai il controllo di quello che succede, di quello che vuoi che gli attori e le persone coinvolte facciano. Ecco, con lo snowboard non è possibile». Di fronte a questa imprevedibilità, Mauri ha fatto un passo indietro: direttore nella teoria, nella pratica ha dovuto farsi prima di tutto spettatore. «Ho cercato di osservare il più possibile e di celebrare questa bellezza della libertà che lo snowboard ha, aggiungendo anche un layer artistico». All’imprevedibilità del processo creativo ha contribuito anche la scelta di girare tutto il film su pellicola sedici millimetri: «Potevamo vedere il girato solo ogni due mesi», spiega il regista. «È stata una scelta stilistica molto importante, perché la stessa arte del cinema fatto con la pellicola è un layer in più che definisce ulteriormente l’approccio a qualcosa che solitamente è raccontato in maniera epica, tra slow-motion e riprese con la GoPro».
Qui, invece, non ci sono imprese adrenaliniche alla Red Bull, né esplorazioni del selvaggio in stile National Geographic, né le “classiche advertising” per i frequentatori domenicali dell’alta quota. Siamo in un territorio nuovo, per lo meno nella sua semantica. «Lo snowboard viene tipicamente comunicato in modo molto standard e negli anni è mancato un approccio più creativo a questo e altre discipline sportive», prosegue Mauri. «Oggi la narrativa sta cambiando, perché lo sport si sta sempre di più interlacciando con culture diverse. Mi sento parte di questo cambiamento, anzi, è una missione personale: voglio vedere e raccontare lo sport in maniera diversa rispetto a quello a cui siamo abituati».
In Every Island Has a Name lo snowboard diventa così il centro di una narrazione che può e sa essere profondamente artistica e ispirata, in cui il gesto atletico in sé viene approcciato con una visione creativa che ne evidenza i legami suggestivi con altri elementi: un aquilone, un fiore, un minerale; opere d’arte fatte realizzare per il film e mostrate sullo schermo. «È una questione di similitudini nel movimento, di connessione con gli elementi. L’aquilone non vola se non c’è vento, lo snowboarder non vola se non si manifesta l’inverno». Dopo sei mesi di riprese in giro per il mondo, Mauri ha messo insieme il film con l’obiettivo di provare a raggiungere un pubblico più ampio rispetto ai soli appassionati di outdoor e snow. Nella fase di editing e montaggio – due settimane vissute solo di notte, intense e sorprendenti – Mauri non sapeva esattamente dove sarebbe andato a parare, ma non aveva dubbi sul metodo. «Montavo il film pensando che doveva essere visto in una galleria d’arte: quello era il mio approccio».
Così è successo, con un evento live che ha effettivamente portato la contaminazione tra snowboard, artigianato e arte oltre i pendii innevati e oltre lo schermo del cinema. La mostra-performance multisensoriale è andata in scena a Spazio Maiocchi a Milano, con la direzione artistica di Oliviero Fiorenzi. «Il film è bidimensionale, la mostra-evento tridimensionale», racconta Mauri. «È una proiezione del film in cui è possibile entrare, con le opere d’arte dei tre artisti (Oliviero Fiorenzi, Azuma Makoto e Mattia Bosco, ndr) divisi per location e la colonna sonora di ognuno dei segmenti suonata live dai musicisti che hanno realizzato le musiche del film». Una manipolazione del prodotto artistico capace di moltiplicare i livelli e i significati, intrecciando il paesaggio innevato con il paesaggio sonoro, e il gesto atletico con quello artistico.