Gli anni Settanta americani hanno significato moltissimo, trasformando per sempre non solo la società e la cultura degli Stati Uniti ma, con un effetto a cascata, anche quelle dell’intero Occidente, Italia inclusa. Con questo non mi riferisco soltanto alla supremazia economica e politica, ma anche a ciò che il politologo Joseph Nye definì “soft power”, cioè la capacità di sprigionare sé stessa attraverso risorse intangibili: ideali e valori. Dalla generazione dei baby boomer in poi, la forza persuasiva della società americana è stata inarrestabile, almeno fino ai primi anni del Ventunesimo secolo. Oggi sappiamo che quest’onda ha iniziato a ritirarsi, ma per lungo tempo ci ha lambito i piedi.
Inquadriamo il contesto. Nel ’75 le sale da ballo come quella dello Studio 54 esplodono: è l’epoca della disco music, quella che trasforma John Travolta in Tony Manero in “Saturday Night Fever”, ma anche dell’ascesa del punk rock dei Ramones e della voce, rauca e potente, che Bruce Springsteen dà alla classe operaia con l’album “Born to Run”. Nel frattempo, a Hollywood, il potere degli studios passa a una nuova generazione di registi: Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, tanto per fare due nomi, segnano l’inizio della “New Hollywood”. Ma gli anni Settanta americani fanno convivere anche i film indipendenti e trasgressivi e i blockbuster, basti pensare a “Lo squalo” e “The Rocky Horror Picture Show”, entrambi del ‘75.
È il momento dell’arte performativa, del corpo che diventa “il” mezzo espressivo primario di artisti come Marina Abramović e Chris Burden. Ancora, dei jeans e della tecnologia domestica, dei videogame Atari, dei quiz show e delle prime serie TV. Insomma, la scena culturale e artistica americana è in pieno fermento, così come lo sono gli animi dei cittadini americani, esausti e delusi da una politica che per vent’anni aveva tenuto il Paese in guerra in Vietnam. Nell’aprile del 1971, circa duecentomila manifestanti si riuniscono al National Mall di Washington D.C., chiedendo la fine immediata del conflitto: si guarda dritto in faccia l’America, il razzismo e il colonialismo insiti nella sua politica.
Per quanto epocali, paradossalmente questi cambiamenti non si riflettono per niente nei programmi televisivi, al contrario «La televisione era ancora un formato “sicuro”, rimasto immutato rispetto ai suoi primi giorni di vita, quando si erano appena lasciate le radio», racconta lo sceneggiatore Gil Kenan. «Saturday Night Live, rappresentò la scossa che la nuova generazione diede a questa istituzione per dichiararle guerra e imporle qualcosa di nuovo», aggiunge.
Ecco perché, sebbene l’arrivo del Saturday Night Live sugli schermi delle TV possa sembrarci un avvenimento distaccato dalla nostra vita di spettatori italiani, questa in realtà è solo un’apparenza. Con la sua satira pungente, lo show ha definito un modello di comicità, critica sociale e satira ad altissima propagazione, che ha permesso a generazioni di autori e comici di confrontarsi liberamente con le questioni più controverse della contemporaneità, deridendo politica, celebrità, tabù sociali e perfino le tradizioni più radicate del paese.
Su questo palco si sono lanciate centinaia di carriere di artisti come Eddie Murphy, Will Ferrell, Amy Poehler e Pete Davidson, dato vita a sketch iconici come Wayne’s World, che ha ispirato l’omonimo film del 1992 e The Blues Brothers, grazie all’indimenticabile duo Belushi-Aykroyd. Più recentemente, sono state le interpretazioni di Kate McKinnon e Alec Baldwin, rispettivamente nei panni di Hillary Clinton e Donald Trump, iniziate durante la campagna presidenziale del 2016 e continuate per tutto il mandato di Trump – a consolidare il SNL come un vero e proprio termometro culturale, capace di rompere gli schemi dei varietà e parlare a generazioni diverse.
E così, per celebrare l’arrivo di Saturday Night nelle sale italiane, dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma appena conclusa, ripercorreremo una parte della storia di questo iconico show, andato in onda per la prima volta l’11 ottobre 1975 dallo Studio 8H al 30 di Rockefeller Plaza, e scopriremo come il film diretto da Jason Reitman e scritto da Gil Kenan ne abbia restituito l’entusiasmo creativo, in un perfetto mix di realtà e spettacolo.
La prima cosa da sapere sul Saturday Night Live è che la sua nascita è davvero in perfetto stile SNL. Nacque, infatti, per riempire un buco nella programmazione del sabato sera, lasciato da Johnny Carson, conduttore del Tonight Show, che chiese alla NBC di avere il weekend libero. Fu in quel momento che Herbert Schlosser, presidente della rete, si rivolse a Dick Ebersol per la creazione di uno show dal vivo da mandare in onda alle 23:30. Ebersol aveva già in mente un nome: Lorne Michaels.
Nato e cresciuto a Toronto, Michaels aveva alle spalle programmi di successo in Canada e conosceva bene la scena comica statunitense. Ma ciò che lo rendeva davvero l’uomo giusto era il suo forte desiderio di portare qualcosa di nuovo al pubblico. Era stanco di quel linguaggio omologato adottato dai club alla TV e, dopo alcune esperienze a Los Angeles, sentiva di non essersi ancora espresso con sincerità e libertà creativa ispirato e attratto com’era dai Monty Python’s Flying Circus, lo show britannico che sfidava le convenzioni sociali a suon di sketch e personaggi assurdi.
Sfida numero uno: tenere i giovani incollati sul divano, il sabato sera. Per Michaels la combinazione di sketch comici e live musicali aveva il giusto potenziale, meno per i dirigenti della NBC da cui nonostante tutto riuscì ad avere l’ok, assicurandogli che avrebbe trovato la formula giusta per lo show entro il decimo episodio. «Allora guarderò il decimo episodio», rispose Schlosser. Nei dieci mesi successivi, Michaels si buttò a capofitto nei casting: tra gli sceneggiatori arruolò Anne Beatts, Al Franken e Michael O’Donoghue, mentre a dar forma al gruppo dei “Not Ready for Prime Time Players” arrivarono Gilda Radner, Dan Aykroyd, Chevy Chase, Garrett Morris, Jane Curtin, John Belushi e Laraine Newman.
A differenza di quanto mostrato nel film, Michaels non “terrorizzava” i dirigenti. In quelle settimane cariche di tensione, la sua attenzione era completamente rivolta al cast, a cui sentiva il bisogno di trasmettere il senso e l’importanza di ciò che stavano creando. Come raccontò in un’intervista del 2013: «Se le persone percepiscono il vostro impegno, il vostro livello, i vostri valori e ciò che vi aspettate, risponderanno di conseguenza. E se ci tengono tanto quanto voi, non serviranno discorsi motivazionali».
Ma dar forma a qualcosa senza precedenti è tutt’altro che semplice, anche con le idee chiare. Il budget iniziale doveva essere rivisto con un’aggiunta di trentamila dollari a puntata, e il dirigente David Tebet (interpretato da Willem Dafoe) rimase talmente sconvolto dalla prova generale della prima puntata che quasi mandò all’aria l’intero progetto. John Belushi (interpretato da Matt Wood), preso dal panico, rifiutò addirittura di firmare il contratto. Questi aneddoti, reali, ci fanno intuire la tensione e il caos di quei giorni, e quanto questa avventura fosse una scommessa rischiosa per tutti.
Non sorprende che, negli anni, il cast e la troupe abbiano raccontato versioni diverse degli eventi di quella notte, creando una molteplicità di prospettive personali che sono diventate il carburante narrativo del Saturday Night di Kenan e Reitman. Raccontando lo show come se stesse prendendo forma in tempo reale, i due hanno deciso di condensare gli eventi che precedettero il primo live con quelli avvenuti nelle settimane e nei mesi successivi, il tutto in un tempo limitatissimo di novanta minuti. «Ci siamo concentrati sul ricreare l’esperienza, l’atmosfera e l’energia che si sono fuse nel dar vita allo show, piuttosto che nel riportare letteralmente gli eventi», spiega Kenan. Non che il fattore “ricerca” sia stato secondario, anzi.
Dopo aver letto tutto il materiale sulla prima stagione di SNL, i co-autori hanno chiesto il via libera a Lorne Michaels, che, dopo oltre cinquant’anni, è ancora il produttore esecutivo dello show. «Trovò l’idea interessante e, con il suo solito fare riservato, ci diede la sua approvazione». A quel punto, gran parte del cast originale ancora in vita, insieme a membri della troupe e agli sceneggiatori coinvolti nella prima puntata, accettò di parlare con loro, in un’operazione che Kenan definisce per entrambi «il processo di scrittura più di stampo giornalistico mai affrontato».
«L’idea era quella di trovare attori capaci di catturare un frammento dell’essenza necessaria al film», racconta il regista in un’intervista a Screen Rant. Per il ruolo di Gilda Radner, ciò significava trovare un’attrice (Ella Hunt) con quella “polvere di fata” speciale che spingeva la comica a sacrificare qualsiasi parte di sé per far sentire meglio gli altri. Per Chevy Chase (Cory Michael Smith), che Reitman definisce «l’uomo toccato da Dio», serviva qualcuno capace di entrare in sintonia con il suo ego smisurato.
Per Garrett Morris, il primo membro afroamericano del cast, si cercava un attore affine al suo spirito da outsider e al percorso identitario che compì all’interno dello show. Come ha recentemente raccontato Lamorne Morris su Hollywood Reporter: «La mia carriera ha seguito un percorso simile. Per tanto tempo, la gente non conosceva nemmeno il mio nome; si rivolgeva a me solo come: “il ragazzo nero di quello show”. Quindi mi ci sono identificato, eccome.» Sorprendentemente, ciascuno degli attori messi insieme da Reitman è riuscito a cogliere la chiave del proprio personaggio, rivelandone il tratto distintivo e dimostrando, al contempo, una comicità brillante.
Una sfida nella sfida, per questo film che culmina con la prima battuta pronunciata al Saturday Night Live e riesce a raccontare il potere travolgente della creatività. A tal proposito, alla domanda su come spera che il pubblico recepisca il film, Kenan risponde: «Al di là di Snl, e della trasformazione culturale che lo show ha rappresentato per noi e per tante persone nel mondo, volevamo fare un film che sfidasse le probabilità. Volevamo raccontare un gruppo di persone che affronta i propri ostacoli, come tutti nella vita, e cerca di mettere sotto scacco l’universo. Questa è la lezione essenziale di questo film».