Per una strana coincidenza sia Matteo Renzi sia Giuseppe Conte, ognuno alla sua maniera, hanno infine scelto di schierarsi dalla parte del centrosinistra (alias progressisti, alias campo largo: la zuppa è sempre quella). Ci sono arrivati entrambi seguendo complicatissimi percorsi politici e tormenti personali, ma ci sono arrivati.
Con il centrosinistra ma non in modo organico, specificazione sottilmente malandrina e potenzialmente distruttiva, specie nel caso del nuovo Movimento 5 stelle, mentre Italia viva si manterrà per così dire a bordo campo essendo ancora vigente la fatwa antirenziana elevata da Conte e da Nicola Fratoianni («La discussione per me è finita») uniti nella lotta. Mentre si alza la schiuma rabbiosa di Beppe Grillo, sostanzialmente cacciato dal suo Movimento, che reca con sé minacce di ricorsi e quant’altro, bisogna chiedersi cosa si ricavi da questo doppio movimento centripeto da parte di due leader che avevano teorizzato, Renzi, l’equidistanza tra i poli, e il M5s di Beppe Grillo, l’estraneità rispetto al normale gioco politico.
Dimostra con un buon grado di oggettività che il sistema continua a reggersi su questo particolare bipolarismo italico e che l’idea di un terzo polo o di un non-polo ha subito colpi mortali, tanto che è sempre più difficile sopravvivere a sé stessa. Non che i tentativi scarseggino.
È partita l’operazione di Luigi Marattin con “Orizzonti liberali” che potrebbe in qualche modo saldarsi con Azione di Carlo Calenda, una due-giorni che apre il processo per la costituente del nuovo partito liberaldemocratico, appunto, fuori dei poli.
Tra i membri del comitato nazionale promotore figurano personalità di spicco come Luigi Marattin, Andrea Marcucci, Oscar Giannino, Alessandro De Nicola e Alessandro Tommasi. Una via al riformismo fuori dalle alleanze è credibile?
Dei destini del riformismo si è parlato molto approfonditamente nella seconda giornata de Linkiesta Festival, sul palco dei Bagni Misteriosi a Milano con Ivan Scalfarotto, Giorgio Gori, Marattin e Tommasi, e anche con Pina Picierno, Lia Quartapelle, Lorenzo Guerini, Filippo Sensi e Gianni Vernetti. Leggendo qui l’ampio resoconto del dibattito sui liberaldemocratici si avverte la solita duplice sensazione: che le analisi siano corrette, ma che tutto questo non riesca a diventare politica organizzata. Si vedrà.
Ma tornando al centrosinistra, ci si chiede se e quanto il “nuovo” Conte potrà essere un problema più che una risorsa. Osserva Lorenzo Guerini: «La scelta del M5s migliora il quadro. Certo, un progetto condiviso alla fine lo devi avere. In ogni caso, i problemi ci sarebbero a prescindere da Conte. Bisogna affrontarli con spirito solidale ma anche con determinazione».
In effetti la decisione della convention post-grillina non dissipa tutti i dubbi sulla reale volontà dell’ex avvocato del popolo di stare lealmente e stabilmente nella futuribile coalizione che sfiderà Giorgia Meloni: chi può giurare che egli si mostrerà malleabile e pronto a trovare mediazioni sui punti programmatici più spinosi come la politica estera? O che non vivrà, sottotraccia, una permanente competizione tra lui e il Partito democratico? E come si risolverà la questione-Renzi, se è vero che tutti i voti sono utili (citofonare Andrea Orlando)?
Insomma, quanto è vera la svolta del Palazzo dei Congressi, e quanto invece c’è di doppio, di ambiguo, nel Partito di Conte? È politica o politicismo quello a cui stiamo assistendo? Elly Schlein per adesso sta giustamente al gioco. Osserva il quadro in movimento consapevole che starà a lei trovare la chiave di quello che potrebbe rivelarsi non una autentica novità politica, ma un mero regolamento di conti interno al Movimento, una trovata per allungare i mandati e dunque gli stipendi, insomma, un accrocco di un giorno.