«L’America ce l’ha fatta: abbiamo eletto un troll alla presidenza». L’ha detto Dave Chappelle otto anni fa, nel monologo d’apertura del primo “Saturday Night Live” dopo le elezioni vinte da Donald Trump. Chappelle aveva capito una cosa che otto anni dopo mi pare ancora sfuggire al ceto medio complessato: certo che le spara grosse, e se gli vai dietro ha vinto lui.
«Bisogna avere carattere, perché quel carattere sia segnato da una zona d’ombra che ti renda un personaggio da tragedia». L’ha scritto Maureen Dowd dopo aver chiesto a uno studioso shakespeariano che personaggio di Shakespeare sia Trump, ed essersi sentita rispondere che mica è abbastanza complesso da stare in una pièce di Shakespeare.
«I miei genitori erano immigrati, io sono il prodotto dello stato sociale». L’ha scritto su Twitter (o come si chiama ora) Cardi B, chiunque ella sia, in risposta a Elon Musk, che l’aveva definita un burattino animato dal partito democratico. Comunque vadano queste elezioni, una cosa è chiara: Donald Trump il posto di troll in chief l’ha ormai perso, quel ruolo ora appartiene a Musk, che ha investito i suoi soldi in una piattaforma su cui l’umanità possa ogni giorno dimostrare la propria scemenza.
«Spero che Kamala vinca, così Maya Rudolph resta al “Saturday Night Live” tutto l’anno e può finanziare il prossimo film di Paul Thomas Anderson» (Maya Rudolph è l’attrice che imita la Harris il sabato sulla Nbc, PTA è suo marito nonché un regista d’una certa fama). L’ha scritto settimane fa una qualche americana con un’idea quantomeno vaga dei compensi per gli attori al “Saturday Night Live” (o di quanto costi un film), e poi sabato la vera Kamala è andata a fare un duetto con la sé stessa della finzione televisiva, e io mi sono chiesta a chi parlassero.
La politica è l’ultima rimasta a doversi chiedere a chi parla, in un mondo in cui si pubblicano libri e si girano film senza mai domandarsi a chi possano interessare: non so se abbia senso non solo pensare che il “Saturday Night Live” abbia un senso, ma anche che quel pubblico lì – storicamente: gli universitari che verso mezzanotte tornano in cameretta e accendono la tv; adesso, immagino gli stessi universitari ma che guardano gli sketch sulla app il giorno dopo – sia da conquistare. Certo, Trump è stato pure un loro presentatore, quando sembrava un innocuo miliardario cazzone e la tv politicamente presentabile lo accoglieva: ma l’elettorato indeciso guarda un programma così fanzinaro?
Alla fine della scenetta, Kamala-quella-vera ha detto alla Maya travestita da Kamala «non è che voti in Pennsylvania?», e io ho pensato a Erica Albright, che in “The Social Network” Mark Zuckerberg trattava con sussiego perché non a Harvard era iscritta ma alla Boston University, meno prestigiosa ma soprattutto nei confini dello stato elettoralmente indeciso. Kamala è andata nel varietà del sabato sera per garantirsi il voto delle Erica Albright?
Per inciso, il “Saturday Night Live” non fa ridere praticamente mai, e quindi che lo sketch di Maya e Kamala non facesse ridere pareva ordinaria amministrazione, ma invece nella puntata c’erano poi diverse cose non male, dall’orso di RFK a Tim Kaine che nessun concorrente d’un quiz sa ricordarsi come si chiami: ma come, ero il candidato alla vicepresidenza nell’elezione più importante delle vostre vite.
Le uniche volte in cui si sa dall’inizio che la puntata farà ridere è quando il conduttore ospite – che cambia ogni settimana – è un gran comico, e sai che almeno gli sketch cui partecipa si metterà a riscriverli lui, mica gli autori che paiono usciti da “Lol”. Alle puntate dopo le ultime due elezioni c’era appunto Chappelle, sabato prossimo ci sarà Bill Burr, che è un’ottima notizia ma non riesco a non chiedermi se sia un ripiego; se, quando l’hanno proposto a Chappelle, lui abbia risposto: un monologo sulla vittoria di Trump l’ho già fatto, uno sulla sconfitta pure, che dobbiamo dirci ancora, aborigeni indecisi?
«Gli indecisi, questi bisessuali della politica». L’ha detto Bill Maher venerdì sera nel suo programma su Hbo, per poi paragonarli a quelli che vanno a comprare i regali di Natale il pomeriggio del 24 dicembre, e senza sapere neanche bene cosa prendere. Mi è sembrato deliziosamente novecentesco, mi sono ricordata di quei 24 pomeriggio alla Feltrinelli di largo Argentina (niente come un libro, se non hai voglia di sbatterti per gli altri), mica come ora che ordiniamo i regali su Amazon e poi passiamo la settimana prima di Natale a bestemmiare per ogni notifica di ritardo del corriere che ce li deve consegnare.
Intanto in Iowa i sondaggi davano la Harris in testa in uno stato storicamente repubblicano, e io pensavo a quant’era stato previdente Trump a dire a Rogan, due settimane fa, che i sondaggisti dicono dei numeri a caso, «neanche telefonano, tu sei stato mai chiamato da un sondaggista? io mai», e che in Wisconsin nel 2016 lo davano sotto di 17 punti e poi ha vinto (la Cnn ha verificato: non è vero, era un sondaggio del 2020, quando ha effettivamente perso in Wisconsin – dello zero virgola qualcosa, però, non di diciassette punti).
Non avevo ancora finito di strabiliare per il tweet (o come si chiama) di Cardi B, per la scoperta che mi lascerà attonita anche alla duemilionesima replica che gli americani siano convinti d’avere uno stato sociale, quando mi è comparsa la risposta d’una tizia che le scrive «Cardi, tu sei il prodotto della cultura della zoccolaggine», e peccato che la tizia verrà liquidata come una hater, perché ha illuminato una grande verità: quel che per te non fa il welfare, lo fa la cultura della zoccolaggine.
In Italia, l’ascensore sociale ha funzionato forse per un quarto d’ora nel secolo scorso. Prima e dopo, i figli dei ricchi facevano i ricchi e quelli dei poveri facevano i poveri: il capitalismo ereditario non prevede gli indecisi.
Vale, come descrizione della società prima del nostro secolo comodo, quel che nella miglior rubrica del giornalismo italiano, “Ok Boomer!”, ha detto Michele Serra del perché non si passasse il tempo a chiedersi dove andrà il mondo, come andranno le elezioni, cosa resterà dei nostri ideali: «Tolte le caste, poche e di pochi, dei regnanti, dei sacerdoti, dei generali, dei mercanti e dei banchieri, riempire la pancia e salvare la pelle sono state, dall’alba dei tempi, le occupazioni fondamentali dell’umanità quasi per intero».
In “The Apprentice” – il film sul giovane Trump che è al cinema ora e che noialtri fanatici abbiamo guardato solo perché il suo avvocato lo interpreta Jeremy Strong, il Kendall di “Succession” – il Donald ventisettenne dice a una ragazza che essere miliardario è un talento che hai nel dna, e fa ridere perché è americano, cioè nasce in un paese in cui i soldi sono (erano?) abituati a farli, non a ereditarli com’è accaduto a lui.
Adesso, per l’orrore di tutti quelli che tra dieci anni non troveranno servitù per la casa in campagna, anche se non hai ereditato puoi prosperare persino qui – qui dove molti lupini e moltissima provvidenza, ma mai un Jay Gatsby – grazie alla cultura della zoccolaggine.
Quando avevo vent’anni io, se eri caruccia e senza talenti andavi ai provini di “Non è la Rai”, ma era un numero di posti di lavoro limitatissimo. Adesso, grazie all’ampliamento della cultura della zoccolaggine e dei suoi mezzi di produzione, devi solo accendere la telecamera del telefono. E a quel punto sculettare, candidarti, entrambe le cose: di sicuro non finisci a lavare le scale, se di presentabile presenza (o se abbastanza impresentabile da divenire telegenica).
Nella cultura della zoccolaggine la valuta sono i like e non si fa la morale alla clientela che decide come ti preferisce. Trump ne è il prodotto perfettissimo, ha ragione Dowd: «Può essere rotondo o quadrato, per TikTok o contro TikTok, per le criptovalute o contro. Non ha nessuna filosofia, tranne: cosa ci guadagno?».
In fondo quel che Cardi B sta dicendo a Trump è che è più americana di lui perché il patrimonio di lei non è ereditario: ci muoviamo tutti e due nella cultura della zoccolaggine, Donald, ma tu non hai fatto la gavetta.