Come da copione, l’Unione europea avrà la sua nuova Commissione in carica dal primo dicembre. Allarme rientrato, a sentire i gruppi centristi all’Eurocamera, entusiasti per l’uscita dall’impasse che ha tenuto in scacco il continente per oltre una settimana. Ma a guardarlo da vicino, il voto di conferma sui vicepresidenti del von der Leyen bis assomiglia meno ad un successo da celebrare e più all’inizio di una resa di conti tra quelli che fino a qui sono stati gli alleati della coalizione europeista: Popolari, Socialisti e liberali. Il baricentro della politica europea è scivolato decisamente verso destra, seguendo una traiettoria che è stata ideata, voluta e realizzata da un unico, paziente regista: il capo-padrone del Ppe e dominatore indiscusso dell’Aula di Strasburgo, Manfred Weber.
Dopo giorni di alta tensione nell’emiciclo di Bruxelles tra i Popolari (Ppe) e i gruppi di centro-sinistra (i Socialisti dell’S&D, i liberali di Renew e i Verdi), nella tarda serata di mercoledì (20 novembre) i coordinatori delle commissioni parlamentari competenti hanno finalmente dato il via libera ai sei vicepresidenti esecutivi del secondo Collegio von der Leyen e al commissario designato ungherese Olivér Várhelyi.
Da quando i vicepresidenti si erano sottoposti alle audizioni parlamentari lo scorso 12 novembre, l’intero processo era andato in tilt per i veti incrociati su due candidati: la socialista spagnola Teresa Ribera e il meloniano Raffaele Fitto. La ministra alla Transizione ecologica di Madrid era stata presa in ostaggio dai gruppi di destra dell’Eurocamera su impulso delle delegazioni spagnole – il Partido popular (Pp), terza forza per numero di eletti nel Ppe, e il partito neo-franchista Vox che fa parte dei Patrioti per l’Europa (PfE) di Viktor Orbán, Marine Le Pen e Matteo Salvini – che volevano la sua testa perché la ritengono responsabile della catastrofe consumatasi nella regione di Valencia, dove le alluvioni del 29 ottobre hanno ucciso oltre 220 persone.
Per tutta risposta, i Socialisti e i liberali (spalleggiati dai Verdi e dalla Sinistra) hanno bloccato l’approvazione del candidato italiano, facendo la voce grossa con il Ppe affinché degradasse Fitto dal rango di vicepresidente esecutivo dato che Fratelli d’Italia non aveva sostenuto la rielezione di von der Leyen e che il gruppo dei Conservatori europei (Ecr) ospita al suo interno formazioni di destra radicale come il PiS polacco.
Lo stallo sembrava essersi risolto nel pomeriggio di mercoledì, quando i capigruppo hanno annunciato l’intesa: tutti avrebbero deposto le armi e le commissioni parlamentari avrebbero dato il via libera ai sei vicepresidenti e a Várhelyi (che era stato «rimandato» per i dubbi degli eurodeputati di centro-sinistra). Era stato addirittura siglato un accordo scritto di coalizione dai leader della cosiddetta «piattaforma» – Manfred Weber per il Ppe, Iratxe García Pérez in quota S&D e Valérie Hayer a nome di Renew – in cui si legge che i tre perni della maggioranza Ursula «concordano di collaborare nella decima legislatura del Parlamento europeo».
Ma al momento di dare l’ok definitivo ai candidati commissari tutto si è impantanato di nuovo e ci sono volute quattro ore per sbloccare l’approvazione delle nomine. Il problema era stato il tentativo in extremis da parte dei coordinatori delle destre di specificare, nella lettera di valutazione di Ribera, che quest’ultima avrebbe dovuto impegnarsi a dimettersi qualora venisse incriminata dalla giustizia spagnola per il disastro di Valencia.
Alla fine, poco prima delle undici di sera, si è raggiunto il compromesso. Alle lettere di Ribera e Fitto sono state allegate delle opinioni di minoranza, dal valore più politico che giuridico: in una Popolari e Patrioti hanno inserito la clausola delle dimissioni di Ribera, mentre Socialisti e liberali hanno reiterato nell’altra il loro scetticismo sull’assegnazione di un ruolo apicale al candidato meloniano. L’unico cambiamento reale è stato il ridimensionamento delle deleghe affidate al candidato ungherese, che vedrà rimosse dal suo portafoglio (e riassegnate alla belga Hadja Lahbib) le competenze relative a gestione delle crisi pandemiche, diritti riproduttivi e strategia per la resistenza antimicrobica.
Tutto a posto, dunque? Non esattamente. Se è indubbio che, a questo punto, la Commissione von der Leyen bis riceverà la benedizione degli eurodeputati il prossimo 27 novembre, è pure evidente che il braccio di ferro andato in scena in questa settimana ha messo a nudo una verità ormai incontrovertibile. E cioè l’alterazione profonda degli equilibri politici nell’emiciclo, che ha determinato il netto scivolamento dell’Aula a destra. Nella tettonica a placche dell’Eurocamera – che riflette lo smottamento elettorale verificatosi nell’intero continente – i gruppi a destra del Ppe (Ecr, Patrioti e sovranisti dell’Esn) controllano collettivamente un terzo dei 720 seggi totali, mentre S&D e Renew contano meno di prima e in questa legislatura non potranno nemmeno puntellarsi sui voti degli ecologisti, crollati verticalmente alle europee di giugno.
È un territorio inesplorato. Finora, l’alleanza Ppe-S&D (con la terza gamba dei liberali) era bastata per governare l’Europa. I vertici progressisti fanno buon viso a cattivo gioco, ma i malumori tra le delegazioni nazionali si stanno già facendo sentire (i socialisti francesi e tedeschi sulle barricate, ad esempio) e i Verdi hanno espresso esplicitamente la loro frustrazione. «Ieri ha vinto l’Europa e ha perso il Partido popular spagnolo», ha dichiarato giovedì García Pérez.
Ma la realtà è un’altra. E cioè che il capogruppo del Ppe, Manfred Weber, ha vinto su tutta la linea. Il 52enne bavarese, capogruppo dei cristiano-democratici a Strasburgo dal 2014, sembra essere diventato il padrone incontrastato dell’emiciclo e la figura centrale (sicuramente una tra le personalità più influenti) nel centro-destra europeo, le cui fortune elettorali non sembrano destinate a finire tanto presto.
La sua scalata al potere assomiglia alla rinascita della fenice dalle ceneri. Nel 2019 i leader dei Ventisette lo scartarono per il posto di presidente della Commissione (nonostante fosse lo Spitzenkandidat dei Popolari, usciti vincitori dalle urne) e paracadutarono sullo scranno più alto del Berlaymont la semisconosciuta Ursula von der Leyen. Da allora, agendo lontano dai riflettori, Weber ha progressivamente concentrato su di sé il potere nel Partito popolare europeo (il partito politico pan-europeo, di cui il gruppo del Ppe è espressione nell’Europarlamento), venendone eletto presidente nel 2022.
Weber, che di formazione è ingegnere, ufficialmente sostiene senza riserve la sua connazionale von der Leyen, ma il rapporto tra i due sembra molto più oscuro e complesso di quanto non diano a vedere. Parrebbe anzi un vero e proprio scontro, una lotta per l’anima – e il controllo – del più potente partito politico del Vecchio continente.
Due Paesi importanti cui guardare per cogliere la portata di queste dinamiche, e per apprezzare da una prospettiva più ampia il gioco strategico di Weber, sono la Spagna e la Germania. Non è un caso che il leader bavarese si sia voluto tenere buoni i populares spagnoli di Alberto Núñez Feijóo (probabile nuovo premier dopo Pedro Sánchez, la cui maggioranza si regge sui voti degli indipendentisti), perché avrà bisogno dei loro voti al congresso del Ppe in calendario per aprile 2025 proprio a Valencia.
Weber ha assecondato e amplificato sul palcoscenico europeo i feroci attacchi dei suoi alleati spagnoli contro Ribera perché il Pp rischia di perdere il presidente della Generalitat valenziana, Carlos Mazón (che governa insieme a Vox), per la disastrosa gestione delle alluvioni. Allo stesso modo, l’appoggio della delegazione tedesca (che tradizionalmente egemonizza il Ppe) sarà fondamentale per mantenere la presa sul partito. E con il leader della Cdu Friedrich Merz che ha già la cancelleria in tasca (in Germania si vota a febbraio), Weber si sarà assicurato un altro potente alleato anche all’interno del Consiglio europeo.
Ma il dominio del capo-padrone del Ppe sta generando anche scontento. Si starebbe infatti creando una fronda nell’ala più moderata del partito, che potrebbe sfidare Weber al congresso candidandogli contro l’austriaco Johannes Hahn, commissario europeo uscente al Bilancio. Tra i più insofferenti ci sarebbe il premier polacco Donald Tusk, una delle figure di maggior rilievo nel Ppe, tornato al governo di Varsavia dopo la parentesi di otto anni in cui il PiS ha preso a picconate lo Stato di diritto nel Paese. Il malcontento di Tusk e di altri cristiano-democratici è dovuto proprio alla decisa svolta a destra che Weber ha impresso al Ppe negli ultimi anni.
Secondo molti osservatori, il momento in cui il leader bavarese ha gettato la maschera, andando allo scontro diretto con von der Leyen e avviando il flirt sempre più spinto con le forze alla destra dei Popolari, è da rintracciarsi nel voto sul regolamento sul ripristino della natura del giugno 2023. Cavalcando l’ondata delle proteste degli agricoltori, Weber ha cercato la sponda delle destre radicali per iniziare a fare a pezzi il Green deal, cavallo di battaglia della presidente dell’esecutivo comunitario (che si è saputa comunque adattare).
La collaborazione si è vista anche su un tema fortemente identitario per i conservatori, l’immigrazione. Così, lo scorso maggio, il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo è passato all’Eurocamera anche grazie ai voti dell’Ecr, come ricordato dallo stesso Weber per sottolineare che FdI è una forza politica responsabile intenzionata a «risolvere i problemi». Certo non si può imputare ad una sola persona la securitizzazione della politica migratoria europea, ma tanto Weber quanto von der Leyen e diversi altri leader europei hanno fatto a gara per ingraziarsi la premier italiana Giorgia Meloni, che di linea dura sui migranti se ne intende.
Due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova, diceva Agatha Christie. E la prova del fatto che l’Ecr sia ormai diventato un partner con cui il Ppe di Weber intende collaborare in maniera meno «fluida» di quanto non si illudano Socialisti e liberali è già arrivata più volte in questo avvio di decima legislatura.
Il terzo indizio è dunque quello relativo all’approvazione dei commissari designati durante le audizioni parlamentari nelle ultime due settimane: in molti casi, i due terzi dei voti dei coordinatori nelle commissioni competenti non sarebbero stati raggiunti senza i Conservatori, il che ha portato Weber a considerare l’Ecr «pronto a lavorare costruttivamente per far entrare in carica la prossima Commissione».
Più di così. Forse la cosiddetta maggioranza Venezuela – un’alleanza alternativa a quella centrista, che va dai cristiano-democratici all’estrema destra sovranista (e con il quale il Ppe ha portato a casa, sul filo del rasoio, il voto sugli emendamenti al regolamento sulla deforestazione, un altro pezzo importante del Green deal) – non sarà possibile su tutti i file legislativi, ma si sa che a Strasburgo le geometrie politiche sono variabili.
Per Weber e il suo Ppe («suo» non nel senso di appartenenza ma di possesso) è sufficiente sapere che, quando vogliono, possono sostituire i tradizionali alleati europeisti con i loro nuovi amici della destra radicale ed estrema, perché i numeri potenzialmente ci sono. «La maggioranza includerà l’Ecr molto spesso», ha ammesso candidamente Peter Liese, eurodeputato della Cdu, per il quale «non c’è alcun cordone sanitario contro l’Ecr».
Quello realizzato dall’ingegnere bavarese è un capolavoro politico, frutto di un disegno lungimirante e di una strategia che sembrano mancare a quelli che, sulla carta, dovrebbero essere i suoi partner di maggioranza. Che sono usciti sconfitti dalle europee e umiliati dai negoziati per la nuova Commissione, ma che pure (al netto di qualche defezione) la prossima settimana a Strasburgo sosterranno il nuovo Collegio «per senso di responsabilità». Un voto, quello del 27 novembre, che visto da questa prospettiva ha tutta l’aria di un assegno in bianco consegnato in mano ai Popolari – senza i quali niente può essere approvato in un’emiciclo così frammentato – e al loro comandante in capo.