C’era una volta il Green deal, pomposo cavallo di battaglia di una semisconosciuta Ursula von der Leyen che, appena nominata dai leader dei Ventisette alla guida della Commissione europea, doveva incassare l’approvazione dell’aula di Strasburgo. Ambiziosi obiettivi climatici, pacchetti di legislazione ambientale quasi rivoluzionaria, priorità normative e politiche orientate intorno alla doppia transizione ecologica e digitale. Era il 2019, i giovani di tutto il continente scendevano in piazza in difesa del loro pianeta con i Fridays for future e la vague verte era arrivata a lambire anche il Parlamento europeo, portando i Verdi al quarto posto per numero di eletti nell’emiciclo.
Ora, alla vigilia della tornata elettorale del prossimo giugno (in Italia si vota l’8 e il 9), il panorama politico europeo è cambiato profondamente. La nona legislatura dell’Europarlamento verrà probabilmente ricordata come una delle più schizofreniche di sempre. Tra il Covid-19, l’uscita del Regno Unito dal blocco, la crisi energetica, l’invasione russa dell’Ucraina, l’inflazione, l’aggravamento dell’emergenza climatica e il riacutizzarsi della crisi mediorientale, gli avvenimenti degli ultimi cinque anni hanno avuto una ricaduta sostanziale sugli equilibri politici dell’Ue.
Al punto che a partire almeno dalla primavera del 2023 il Green deal, pilastro legislativo del (primo?) mandato di Ursula von der Leyen, è stato trasformato in un sacco tirapugni dalle forze politiche di destra, incluso lo stesso Partito popolare europeo (Ppe) di cui fa parte la presidente uscente della Commissione. Complice il crescente successo elettorale delle formazioni dell’estrema destra anti-ambientalista (rappresentanti di un «trumpismo europeo naturo-scettico», come l’ebbe a definire il liberale Pascal Canfin, presidente della commissione Ambiente dell’Europarlamento, che poi è lo stesso «ecofascismo» di cui parla Francesca Santolini nel suo nuovo libro) e di un agguerrito populismo agrario che sta soffiando sul fuoco delle proteste transnazionali degli agricoltori, ora anche i cristiano-democratici si oppongono con risolutezza all’abuso di legislazione ecologista.
Un cortocircuito che ha visto i Popolari prima avallarla e poi (cercare di) affossarla nella medesima legislatura, compiendo insieme «le azioni più contraddittorie in un solo fresco respiro», come scriveva Tristan Tzara nel Manifesto del Dadaismo del 1918. Così, dopo aver impallinato il divieto dei motori a combustione entro il 2035, il Ppe di Manfred Weber (leader della Csu bavarese, partito “gemello” della Cdu di von der Leyen, e capogruppo popolare a Strasburgo) ha continuato le prove generali dell’alleanza con le altre destre, sul modello della coalizione che governa a Roma. Gioco di sponda con i Conservatori e riformisti di Ecr (dove siedono anche i polacchi di PiS, capitanati dalla premier italiana Giorgia Meloni) e con i sovranisti di Identità e democrazia (Id), che ospita la Lega di Matteo Salvini insieme ai lepenisti francesi e all’AfD (Alternative für Deutschland) tedesca. L’ha fatto, ad esempio, tentando di bloccare al suo ultimo passaggio in aula la Legge sul ripristino della natura, uno dei provvedimenti chiave del Green deal che mirava a tutelare gli ecosistemi marini e terrestri europei, già abbondantemente annacquato durante i negoziati tra i colegislatori.
Alla fine, il regolamento è stato salvato in corner da un manipolo di “ribelli” liberali e popolari che hanno votato insieme a Socialisti, Verdi e Sinistra. Ma il messaggio politico è eloquente: i giorni dell’ambientalismo di Bruxelles sono contati. Peraltro, non è nemmeno detto che questo regolamento entri in vigore nella sua forma attuale, dato che si registrano ancora forti mal di pancia da parte di molti Stati membri al Consiglio, Italia inclusa.
Ma il dadaismo politico (o opportunismo elettorale) del centrodestra europeo non è finito lì. All’ultima plenaria dell’Eurocamera, tenutasi dal 22 al 25 aprile, sono stati approvati altri importanti pezzi del Green deal nel corso di una serie di votazioni fiume che ha visto sul tavolo una novantina di file legislativi, un record storico. Tra i provvedimenti adottati, tuttavia, è difficile scorgere un pattern chiaro e inequivocabile. L’unico dato certo è che gli eurodeputati dell’Ecr e di Id hanno votato contro (o si sono astenuti) in quasi tutte le occasioni, mentre i Popolari si sono spesso spaccati, nel senso che a seconda del provvedimento specifico c’è stata una porzione più o meno ampia che ha votato in “dissenso” rispetto alle indicazioni del gruppo.
Da un lato sono infatti passati alcuni testi che vanno chiaramente nella direzione di un ulteriore approfondimento del quadro normativo per la tutela ambientale, come quelli sull’ecodesign e il diritto alla riparazione, legati a doppio filo. Il primo regolamento pone in capo ai produttori l’obbligo di adottare misure concrete per la progettazione sostenibile di alcune merci (come mobili e capi d’abbigliamento), nonché quello di includere in un passaporto digitale indicazioni chiare circa l’impatto ambientale dei prodotti.
La seconda direttiva sancisce il diritto dei consumatori a poter contare su servizi di riparazione per i propri prodotti e dispositivi che siano accessibili ed economici, anche oltre lo scadere della garanzia legale. L’obiettivo è sostenere l’economia circolare allungando il ciclo di vita dei beni di consumo, favorendone il riutilizzo e contrastando l’obsolescenza programmata.
Dall’altro lato, invece, gli eurodeputati hanno approvato testi politicamente più controversi. Come il regolamento sugli imballaggi, fortemente ridimensionato rispetto alla formulazione originale della Commissione dopo un lungo braccio di ferro politico che ha visto tra i vincitori il governo italiano, che ha portato a casa un’importante deroga sugli obiettivi di riuso degli imballaggi a patto di dimostrare una quota di riciclo dei rifiuti da imballaggi di almeno l’ottantacinque per cento. In quello che il fronte ecologista ha denunciato come un regalo alle lobby degli imballaggi, della plastica e dei fast-food, l’Eurocamera ha quindi dato il via libera a target di riduzione dei rifiuti in questione decisamente poco ambiziosi, che difficilmente consentiranno di centrare la neutralità climatica entro il 2050.
Anche l’approvazione del Net-zero industry act ha attirato forti critiche dagli ambientalisti, che puntano il dito contro questo “cavallo di Troia” tramite cui Bruxelles, con la scusa di incentivare la produzione domestica di tecnologie verdi per contrastare il primato globale cinese, accorda di fatto sostegno regolatorio ad alcuni comparti considerati poco green. Fondi europei (peraltro non nuovi ma ripescati da altri strumenti già esistenti, come la piattaforma Step) e procedure accelerate di autorizzazione, dunque, non solo per rinnovabili ed elettrificazione, ma anche per gli impianti nucleari (a grande insistenza francese) e quelli per il sequestro e lo stoccaggio del carbonio – entrambi visti come fumo negli occhi dagli ambientalisti.
Sono state inoltre riviste al ribasso, grazie al voto favorevole delle destre, alcune regole della politica agricola comune (Pac), la più grossa voce di spesa dell’Unione che da sola costa circa un terzo del bilancio comunitario, nell’ennesima concessione agli agricoltori (soprattutto piccoli) che ora potranno ricevere i fondi europei potendo rispettare meno requisiti obbligatori. Compromesso al ribasso anche per la direttiva sulla due diligence aziendale, anche se in questo caso l’alleggerimento dei requisiti ambientali cui le imprese dovranno sottostare era già stato operato dai governi nazionali in sede di Consiglio a metà del mese scorso, quando si è deciso che il controllo degli obblighi introdotti dalla normativa varrà solo per le aziende che impiegano più di mille lavoratori e fatturano più di quattrocentocinquanta milioni di euro l’anno.
Quanto alla qualità dell’aria che respiriamo, infine, l’aula ha approvato la direttiva che rende più stringenti gli obiettivi di riduzione delle sostanze inquinanti (tra cui il particolato PM2,5 e PM10, l’ossido di azoto NO2 e l’anidride solforosa SO2), avvicinandoli a quelli suggeriti dall’Oms, ma che contemporaneamente aumenta la flessibilità nelle deroghe per i Paesi membri che dimostrino di avere la necessità di estendere i limiti per l’applicazione di questi stessi target, spostandoli dal 2030 al 2040.
Ad ogni modo, il futuro del Green deal appare quasi irrimediabilmente compromesso. Del resto è stato lo stesso esecutivo comunitario a rimangiarsi parecchi impegni regolatori che aveva proclamato a sostegno della transizione verde, soprattutto in materia di agricoltura. L’uscita di scena del vicepresidente socialdemocratico del collegio Frans Timmermans, lo “zar del clima” del Berlaymont rientrato nei suoi Paesi Bassi per le elezioni dello scorso autunno (vinte a sorpresa dall’ultradestra xenofoba di Geert Wilders, alleato di Salvini in Europa), ha solo accelerato un processo già in atto da tempo, il cui ritmo è dettato dalla rincorsa dadaista del Ppe dietro ad ecofascisti e crociati anti-ambientalisti vari.
Mentre si incancrenisce la guerra in Ucraina e si aggrava l’incertezza sullo scacchiere internazionale, sia in termini strategici sia economici, le priorità dei legislatori europei si stanno spostando con decisione dalla salvaguardia dell’ambiente verso la difesa comune, la competitività commerciale e il rilancio industriale. E con la decima legislatura di un Parlamento europeo che, proiezioni alla mano, si annuncia la più spostata a destra di sempre, c’è già chi intona il de profundis per le ambizioni green di un’Unione europea che appena cinque anni fa pretendeva di mostrarsi come l’avanguardia globale della lotta alla crisi climatica.