Era giusto dieci anni fa, ma lo so solo perché un miliardario cattivo (Zuckerberg, non Musk) mi tiene i conti temporali, e mi fa vedere in quell’album di famiglia che è Facebook che nel dicembre di dieci anni fa in effetti ero in un certo studio di registrazione di New York.
Lorenzo Jovanotti (che non si sa mai bene come chiamare: Jovanotti è un nome da pirla; Lorenzo Cherubini sembra che tu sia l’ufficiale giudiziario che gli notifica una multa; Lorenzo e basta è un’ostentazione di confidenza francamente disdicevole) aveva appena finito di incidere, nella città in cui viveva in quel periodo, un disco che sarebbe uscito di lì a poco, e c’era la questione del singolo.
“Singolo” è una parola che non ha più senso: valeva quando esistevano i 45 giri (e i mangiadischi), e quando le radio compatte mandavano tutte la stessa canzone che serviva a lanciare l’album (forse anche “album” non ha più gran senso). Certo, anche adesso le radio mandano tutte la stessa canzone, ma non importa, perché tutti quanti ci facciamo la nostra musicassetta (in neolingua: playlist) e ascoltiamo quel che ci pare (tranne i tassisti, che ascoltano ancora le radio; tranne un tassista che l’altro giorno a Milano m’ha messo su Frank Sinatra, e abbiamo pure discusso se fosse meglio “Come fly with me” o “Fly me to the moon”: i 26 euro per quattro chilometri meglio spesi della mia vita).
Ricordo perfettamente il momento di fine 2014, eravamo fuori dal Sant Ambroeus (gli italiani a New York si dividono tra quelli che vanno nei bar milanesi e quelli che vanno nelle pizzerie salernitane), e Lorenzo si stava baloccando con l’idea di far uscire come primo singolo “L’alba”, e di farlo uscire a capodanno. (Poi il primo singolo fu “Sabato”, me lo ricordo per ragioni mitomani che vi racconto un’altra volta).
A un certo punto “L’alba” ha una strofa che contiene al suo interno Ungaretti, Montale, e Sandro Penna. Quindi siamo fuori dal Sant Ambroeus, e io gli dico: lo sai che avrai i social pieni di «Ha copiatoooo», sì? Lui mi guarda con l’aria sprezzante che sanno avere quelli ai quali il padre diceva «ma sei proprio sicuro di voler fare la musica, che è la cosa che ti viene peggio», e poi sono diventati popstar, e mi scandisce come a una scema: ma dico «Poesie scritte sui muri degli autogrill» al verso dopo. Vedrai, sospiro io, Cassandra in sessantaquattresimo.
Eravamo in quel momento della transizione tra il niente e l’abbastanza (è una citazione anche questa) in cui la gente si sentiva intelligente a riconoscere le citazioni banali, e ad accusarti di tentato plagio perché, dopo il mezzo del cammin di nostra vita, non avevi specificato «cit.».
Tra il niente e l’abbastanza c’è il troppo e il troppo poco, ma quel che non diciamo a sufficienza è che non si tratta di com’era prima e di com’è diventato dopo: si tratta di due periodi storici brevissimi. Quello che cominciava allora, in cui nessuno sapeva talmente un cazzo di niente che ci si sentiva colti a riconoscere le poesie mandate a memoria alle medie; e quello in cui ci eravamo formati noi, in cui si divoravano poesie ma anche quadri ma anche romanzi ma anche film. Ci sembra che quello sia tutto il prima, l’interezza del com’è sempre stato, perché sono i nostri anni di formazione – ma sono durati un attimo. Mia nonna non andava al cinema. Mio padre non guardava la tv americana. Quel mondo che abbiamo conosciuto noi l’abbiamo conosciuto solo noi.
Mercoledì, mentre Lorenzo metteva sui social i primi frammenti della sua nuova canzone, uscita ieri, Netflix metteva sui social le prime immagini del “Gattopardo”. Cioè: della serie in cui Kim Rossi Stuart fa il principone, uno che neppure so chi sia fa Tancredi, e – a quanto si è letto – l’eroina è Concetta, perché “Il Gattopardo” di Visconti è del 1963 e sono quindi sessantun anni che noi cesse aspettiamo che venga vendicato il fatto che Alain Delon ci preferì Claudia Cardinale.
Naturalmente eravamo indignati solo noi vecchi tromboni formati nel brevissimo mezzo secolo in cui è esistita la cultura popolare. Noi così rovinati dai cineclub – ma anche solo dai Bellissimi di Rete4 – da ritenere inconcepibile che serva un nuovo “Gattopardo”: guardatevi quello vecchio, che va ancora benissimo, borbottiamo col tono con cui i genitori del Novecento ci dicevano che non ci serviva un nuovo giubbotto.
Poi, quando “Il Gattopardo” arriverà e non farà il tonfo della New Coke (che è un’altra di quelle cose che sapete cosa fossero solo se c’eravate in un pezzettino molto preciso di Novecento), trasecoleremo, e ci racconteremo che è solo perché Netflix lo mette in apertura di schermata e il popolo bue ci clicca senza sapere che è l’annacquata copia d’un capolavoro.
Quando voglio dare retta alla Aspesi (che ama ripetere che il presente ha sempre ragione) o a Jovanotti (che anni fa diceva che ora è sempre meglio), io cerco di convincermi che ci sia un qualche vantaggio nell’essere così vergini di tutto. Nell’essere talmente ignari di chi sia Luchino Visconti che puoi goderti un “Gattopardo” altrui (ma anche molto meno del “Gattopardo”: per me è inaccettabile che abbiano rifatto “Il danno” o “Attrazione fatale”, figuriamoci).
Poi però succede che la nuova canzone di Jovanotti s’intitoli “Montecristo”, e s’intitoli così quando non è più il decennio in cui ci si sentiva intelligenti a riconoscere le citazioni ovvie: è il decennio in cui ci si sente normali a non riconoscerle, questo, a non sospettare neppure che siano tali, ad avere un telefono in tasca e usarlo per farsi le foto invece che per consultare tutte le biblioteche del mondo. Siamo nel momento in cui l’abbastanza è sia il troppo sia il troppo poco. “Montecristo” ha un tema che mi è caro – si diventa solo ciò che si è – e forse la risposta è lì: il secolo che si piccava di riconoscere le poesie delle scuole medie è diventato ciò che era nel suo destino, un secolo che non riconosce neanche le poesie delle scuole medie.
Mi basta ascoltarla mezza volta per ritrovarmi a benedire la modernità e la frammentazione e le piattaforme, perché su Prime c’è “Straziami ma di baci saziami”, e io mica lo so come avrei fatto nel Novecento, se non avessi avuto la vhs in casa, se neanche Rai3 me l’avesse mandato la notte, e insomma se fosse uscita una canzone intitolata così e io non fossi potuta subito correre a rivedere Nino Manfredi che dice «La ròta gira, mia cara: come il conte di Montecrishto, sono tornato ricco e shpietato». C’è stato un tempo in cui le commedie popolari si permettevano riferimenti ai romanzi dell’Ottocento, senza dirsi «oddio, ma il pubblico poi non capisce e fugge su un’altra app che gli richieda minor impegno».
Dopo aver rivisto Manfredi, mi sono messa ad aspettare le reazioni dell’ormai inattrezzatissimo grande pubblico, quello che se non capisce chissà se si spaventa pure d’una canzone: coglieranno il cruciverba facilitatissimo di Lorenzo – «il conte si vendicherà, come accade da sempre nel libro di Dumas, Alexandre Dumas» – o annasperanno come non avessero Google sul telefono, incapaci di ormai qualunque curiosità intellettuale? Ci sarà anche solo uno che leggerà “Il conte di Montecristo” per merito d’una canzonetta, in questo secolo in remissione culturale?
Sì, lo so che è un romanzone popolare, mica l’“Ulisse”. Ma so anche che quando cito “Il sorpasso”, la più famosa commedia italiana del Novecento, uno dei film più popolari mai girati, c’è sempre qualche passante (non esistono più i lettori: esistono passanti che si trovano nel telefono il tuo articolo e si convincono che tu abbia fatto riferimenti oscuri per dispetto a loro, proprio a loro) che mi scrive cose tipo: smettila con queste citazioni che capisci solo te.
C’è un dialogo che cito spesso, viene da “C’eravamo tanto amati”, che è un film del 1974 e quindi più che mai queste-citazioni-che-capisci-solo-te. È un dialogo che ruota attorno a un libro di Dumas che non è “Il conte di Montecristo” ma che all’epoca era altrettanto ovvio conoscere. C’è l’ignorantissima figlia del palazzinaro ricco, e l’avvocato che l’ha sposata per ambizione e cerca un po’ di sgrezzarla. C’è lei che gli dice che sta provando a leggere quel libro che lui le ha dato, ma «molto tosto, eh»; c’è lui che ha la faccia che ho io in questo secolo persino più breve e vertiginosamente più vergine: «Dumas, tosto? “I tre moschiettieri”?». Era cinquant’anni fa. Ridevamo di lei. Siamo diventati lei.