Come maiQuincy Jones, gli 883, e il presente che non ha mai ragione

Nessuno ha costruito tanti successi musicali quanti quel genio, morto ieri, che ha prodotto “We are the world”, Sinatra e “Thriller”. Intanto gli adulti di oggi litigano su Max Pezzali a causa della serie Sky

AP/Lapresse

Chiunque sia eletto presidente degli Stati Uniti stanotte, a gennaio Quincy Jones – morto ieri a 91 anni – non suonerà alla festa per il suo insediamento. Se qualcuno dovesse chiedervi quale fosse il primo presidente al cui insediamento Jones aveva suonato – prima di tutto, prima di produrre dischi pazzeschi e di entrare nella storia della musica – potete rispondere che era un certo Dwight Eisenhower: Quincy aveva diciannove anni, Donald Trump e Bill Clinton ne avevano sei, Frank Sinatra trentasette.

Se ci chiedessero dove eravamo quando era vivo e al massimo del suo splendore Quincy Jones, potremmo dare qualunque risposta. Ad ascoltare “Thriller”. Ad ascoltare “Sinatra at the Sands”. A guardarlo rassicurare Bob Dylan durante le incisioni di “We are the world”. A scoprire “Soul Bossa Nova” con trentacinque anni di ritardo, quando lo usano in “Austin Powers”. Ad ascoltare Amy Winehouse che faceva “It’s my party”, perché all’epoca di Lesley Gore eh-ma-mica-ero-nato. A leggere le favolose interviste in cui raccontava che in Irlanda dormiva nel castello di Bono perché negli alberghi eran razzisti.

Tra il debutto professionale di Quincy Jones e il documentario su “We are the world” in cui spiegava che per produrre una canzone con tutti quei divi non devi essere solo un gran musicista, ma un ottimo psichiatra, passano settant’anni. Non c’è molta gente che ha fatto parte della nostra vita più a lungo di quanto sia durata la nostra vita, e che nel tempo ha fatto alcune cose che definiscono il concetto stesso di pop: la roba che conosci anche se non la conosci.

Se ci chiedessero dove eravamo quando è morto Quincy Jones, ovvero ieri, saremmo costretti a rispondere con una verità parecchio imbarazzante: assistevamo a un incredibile bisticcio collettivo sugli 883, le cui dinamiche ricordavano quelle seguite a un’intervista in cui Quincy Jones aveva detto che i Beatles erano dei pessimi musicisti e Michael Jackson era un ladro di idee.

Gli 883 sono quindi i Beatles di quel che resta della civiltà occidentale? “Hanno ucciso l’Uomo Ragno” (ho cercato su Google “canzone famosa 883”) sta al dibattito culturale di oggi come “Billie Jean” stava a quello di qualche anno fa? È dunque questo il declino delle élite?

L’ultima volta che mi è passato davanti, su un social, qualcuno di indignato perché «tu Ringo Starr lo lasci stare capitoooo» è stato due settimane fa, lo so perché sono andata a cercare i messaggi in cui commentavo la ridicolaggine con un’amica. Pensa, ci dicevamo, ritenere di dover difendere la reputazione dei Beatles.

L’intervista era di sei anni prima: il che sarebbe miracoloso, nel secolo del presentismo, in cui nulla dura più di sei minuti; ma è anche ovvio, nell’epoca in cui i giornali vengono consumati solo a mezzo screenshot su social: se qualcuno recupera “Tognazzi capo delle BR” oggi o domani, è come se fosse di ora e non del secolo scorso.

Ma c’è un’altra regola che l’ira funesta dei piccoli fan dei Beatles dimostra, ed è una regola che qualunque intervistatore conosce: non è solo che essere un genio nel proprio mestiere ed esserlo nel rilasciare interviste siano due abilità che raramente convivono; è soprattutto che, nell’epoca in cui sono tutti terrorizzati che l’internet li giudichi qualcosafobici, bisogna intervistare solo gli ottuagenari. Gli unici che non hanno paura di niente, gli unici che la sparano grossissima, che è l’unico modo per dare interviste irresistibili (in quella del New York Magazine, nel giro di tre righe l’ottantacinquenne Jones diceva di sapere segreti dei Clinton che era meglio non svelasse, e di conoscere il nome del vero assassino di Kennedy).

Poi certo, persino un ottantacinquenne dovette scusarsi, dicendo che le figlie (tutte e sei, pare, da quella già allora sessantaequalcosenne a quella allora venticinquenne, avuta da Nastassja Kinski) lo avevano costretto, gli avevano detto che non era giusto offendere, ma lui non voleva offendere nessuno, specialmente non i suoi amici vivi o morti. Si fingeva stupefatto del fatto che, di quell’intervista, avessimo fatto più caso ai passaggi in cui diceva d’aver avuto un flirt con la figlia di Trump, o che “Billie Jean” era un plagio, o che Marlon Brando si sarebbe scopato pure una cassetta delle lettere, che a quelli in cui spiegava che l’America era razzista; fingeva, ma sapeva benissimo che reazioni avrebbe provocato: era troppo intelligente e troppo di mondo, per non sapere.

(Per me inspiegabile che di quell’intervista non si ricordi soprattutto il passaggio in cui diceva che Paul Allen – sì: quello di Microsoft – suonava come Jimi Hendrix. E lui lo sapeva perché, mentre erano tutti in vacanza sullo yacht di Allen, suonava Stevie Wonder e a un certo punto aveva invitato Allen a salire sul palco con lui. Negli stessi giorni – aveva un documentario da promuovere – aveva dato un’altra intervista, a GQ, in cui diceva che nell’ultimo anno erano morti sessantasei suoi amici, e la lista andava da David Bowie a George Martin, aveva raccontato di Picasso che a pranzo era sempre ubriaco d’assenzio, di Prince che tenta di mettere sotto Michael Jackson con la macchina, di quella volta che doveva raggiungere il suo parrucchiere a una cena a casa di Roman Polanski, si dimenticò di andarci, e a quella cena morirono tutti perché arrivò la setta di Charles Manson e ammazzò Sharon Tate e i suoi ospiti. Per il repertorio irresistibile, aiuta essere ricco e famoso da un secolo, e non avere in carniere aneddoti con gente che non sia ben piazzata nell’immaginario collettivo. Scusate, ho detto «immaginario collettivo»: non capiterà più, promesso).

Ora, questo è il punto in cui i miei coetanei che vivono nel terrore di sentirsi dare dei «boomer» (la parola con cui il secolo analfabeta ha sostituito «matusa», che era meno imprecisa) è bene smettano di leggere, perché arriva la parte in cui paragonerò gli 883 a Frank Sinatra, e lo farò per dire che sì, era meglio prima.

C’è una frase che dice spesso Natalia Aspesi, «il presente ha sempre ragione», e ai miei coetanei che vogliono sentirsi contemporanei piace citarla, un po’ perché non hanno ancora capito che Natalia mente sempre (è la sua migliore qualità), e un po’ perché è il modo in cui giustificano la ridicolaggine con cui i cinquantenni di oggi hanno lo stesso cantante preferito dei figli dodicenni. Natalia è immune da questa sindrome avendo il doppio vantaggio di non far parte della mia scemissima generazione, e di non ascoltare canzonette.

Alla fine dell’estate, quando la serie di Sky sugli 883 stava per venire trasmessa, il direttore d’un giornale su cui scrivo mi ha chiesto se volessi occuparmene. Gli ho suggerito un’altra collaboratrice, spiegandogli che perché gli 883 significassero qualcosa per te dovevi essere più giovane di quanto lo fossi io negli anni Novanta, e abitare nello sprofondo di province da me mai frequentate. Lui mi ha dato della snob, abbiamo riso, e pensavo che di questa ovvietà – cosa vuoi che gliene fregasse degli 883 a una ventiequalcosenne che viveva a Roma – non mi sarei mai più dovuta occupare.

Poi la serie è andata in onda, ha avuto un innegabile successo, tra le persone che conosco abbiamo trascurato di guardarla in forse tre, è subentrata la sindrome «se tutti ne parlano, devo dire che gli 883 mi sono sempre piaciuti, altrimenti non sembrerò degno di stare coi fighi della scuola all’intervallo in cortile» (è la stessa sindrome per cui editorialisti settantenni si aprono TikTok, accademici cinquantenni si sdilinquiscono per Taylor Swift, e le mie amiche, se chiedo loro come gli sia sembrato un certo film, mi dicono cosa ne pensano le figlie diciottenni col tono con cui mi riferirebbero il parere di Harold Bloom su Jane Austen).

L’altro giorno Fabio Vassallo – l’ultimo intellettuale rimasto a dire delle cose sui social – ha scritto questo tweet (o come si chiamano ora): «Negli anni dei Nirvana e di Björk dire che ti piacevano gli 883 era una condanna a morte sociale. Li ascoltavano solo i dodicenni anagrafici e mentali. Poi è successo quello che è successo con gli ABBA e altri ex impresentabili». Apriti cielo. Sono giorni che, come apro quella app di gente che non contribuisce al pil, mi passa davanti qualche «non ti permettereeee».

Ora. Il mio litigio preferito sugli anni Novanta è fatto così: io dichiaro che tutti quelli che dicono che ascoltavano i Nirvana praticano revisionismo autobiografico, e ascoltavamo tutti Alanis Morissette; le mie amiche strepitano «io ascoltavo “In utero” e non ti permettereeee». Tra l’altro non credo d’essere un buon campione dei ventenni di allora: ascoltavo solo “Novecento” e “Macramé” e i dischi dal vivo di De Gregori (che all’epoca faceva un disco dal vivo ogni tre quarti d’ora).

Però mi fanno molto ridere quelli che per difendere sé stessi e il loro gusto (il loro gusto di trent’anni fa, che se fossimo ancora nei secoli in cui a un certo punto si diventava adulti sarebbe caduto in prescrizione) si scaldano. Mi fanno ridere se il loro gusto sono gli 883, ma anche se sono i Beatles o Michael Jackson. Mi sembra un portato di quest’epoca di relazioni parasociali: Taylor Swift ti deve una dichiarazione elettorale dalla parte giusta, e i passanti ti devono rispetto per i poster in cameretta.

Però non c’è Grande Indifferenziato che tenga, mi spiace. Il presente non ha ragione, se il presente è spiegare quanto sia seminale il verso «due discoteche, centosei farmacie», e il passato è quel luogo in cui, a venticinque anni, Quincy Jones produceva Frank Sinatra. Il che gli avrebbe permesso, sessant’anni dopo, di rispondere all’intervistatore che domandava se ci fosse qualche suo lavoro che secondo lui avrebbe dovuto avere più successo con: «Di che cazzo stai parlando? È un problema che non ho mai avuto, sono stati tutti successi enormi».

Che, certo, è una frase che potrebbe dire con altrettanta convinzione anche Claudio Cecchetto, ma insomma, ecco: io sono contentuccia d’aver avuto dieci anni ai tempi di “Thriller”; se domani divento una che ci tiene alla reputazione delle canzonette della sua infanzia, faccio meno fatica a difenderne il valore extranostalgico.

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