News avoidanceLa fuga dalle notizie, e il progressivo allontanamento di media e lettori

I giornali devono fare i conti con un pubblico che ha sempre meno tempo, risorse e possibilità per informarsi. Ma qualche soluzione per riavvicinare almeno una parte di quelle persone già si intravede

AP/Lapresse

I ragionamenti che studiosi e opinionisti fanno sulla qualità, l’affidabilità e l’importanza dei giornali dimenticano spesso un dato centrale: sempre più persone, semplicemente, non si informano. Al contrario, fuggono consapevolmente dalle notizie. È la news avoidance, il tentativo di non essere esposti a notizie di alcun tipo. Seppur presente anche in Italia, dove il quarantuno per cento dichiara di sentirsi sopraffatto dalla quantità di notizie oggi disponibili, il fenomeno è stato indagato principalmente negli Stati Uniti. Secondo l’ultimo Digital News Report pubblicato dal Reuters Institute, il quarantatré per cento degli americani sostiene di sottrarsi alle notizie in qualche modo. Le persone che consumano notizie meno di una volta al mese o mai sono l’otto per cento. In una recente intervista con il Reuters Institute, Benjamin Toff, uno dei principali studiosi della news avoidance, ha descritto il profilo tipo del news avoider statunitense: giovane, estrazione operaia, tendenzialmente donna, non diplomato e, soprattutto, disinteressato alla politica. Le ragioni principali per evitare le news ricadono in due categorie. La prima sono le cosiddette barriere strutturali. Alcune persone dichiarano di non avere proprio il tempo materiale da dedicare all’informazione nella loro routine quotidiana: hanno tre o più figli, un genitore non autosufficiente, un lavoro full time. Ci sono però anche persone che non si informano a causa del contenuto delle notizie: provano ansia a informarsi, sono frustrati dalla ricerca del sensazionalismo a tutti costi da parte dei giornali, credono che le notizie non riguardino nulla di ciò che sta loro a cuore. In questa categoria rientrano anche molti news avoider che si definiscono conservatori ed esprimono sfiducia nei mezzi d’informazione tradizionali. Queste persone non credono che i giornalisti siano davvero imparziali. Tuttavia, proprio per lo scarso interesse verso le questioni politiche, i news avoider americani tendono anche a non avere un forte senso di appartenenza a una delle due famiglie politiche americane, Democratici e Repubblicani. Sia Kamala Harris che Donald Trump, quindi, hanno investito risorse per attrarre questo segmento di potenziali elettori indecisi, soprattutto concedendo interviste a podcast molto seguiti o coinvolgendo influencer attivi su TikTok e Instagram, canali ritenuti più adatti per rivolgersi alle persone che scappano dai media tradizionali. Le analisi post-voto dei prossimi giorni daranno indicazioni su quanto il tentativo dei due candidati abbia avuto o meno successo. Nella stessa intervista con il Reuters Institute, Toff sottolinea un lato interessante della generale sfiducia degli americani verso la capacità dei giornali di esercitare una funzione di controllo sul potere (il cosiddetto watchdog journalism, in inglese), delineando una sorta di circolo vizioso. «Chi si informa poco ha tendenzialmente più probabilità di essere attratto dalle fonti che fanno clickbait trattando di vip, criminalità locale o opinioni sui temi più disparati rispetto che dalle inchieste giornalistiche del New York Times. Da qui la sensazione che i giornali non parlino di temi importanti e inseguano soltanto il profitto o un qualche piano politico nascosto. [I news avoider] hanno anche poche probabilità di aver mai parlato effettivamente con un giornalista, o di conoscerne uno personalmente. Quindi, per loro, i giornalisti sono parte di quell’élite disconnessa dalla realtà di cui fanno parte anche i politici», spiega il ricercatore. La news avoidance è probabilmente una minaccia strutturale di lungo periodo per la tenuta delle istituzioni democratiche. Sul breve periodo, tuttavia, la principale minaccia che pone è alla sopravvivenza dei giornali indipendenti. Calando i lettori, non calano solo le entrate (abbonamenti e pubblicità) delle testate, ma viene meno anche la loro ragione d’essere: essere lette. Quindi, sebbene le radici del fenomeno esulino dall’ambito del giornalismo, alcuni addetti ai lavori – caporedattori, ricercatori e policy-maker – si sono attivati per identificare possibili soluzioni. Una di queste è aumentare la trasparenza del lavoro giornalistico. I giornalisti dei media indipendenti sono oggi incoraggiati a parlare al proprio pubblico del “dietro le quinte” del loro lavoro: come scelgono le notizie da coprire, come le verificano, come si relazionano con le fonti. Aumentare la trasparenza nel rapporto con lettori e lettrici è visto come un modo per ricostituire quel vincolo di fiducia che sembra essersi spezzato negli ultimi decenni. Alcuni media, invece, hanno iniziato a comunicare direttamente con la propria comunità in modo più diretto, tramite app di messaggistica come WhatsApp, aggirando la mediazione dei social media. Tuttavia, la strategia più promettente, secondo Toff, passa per la ricostruzione delle news communities, reti di persone che consumano notizie da fonti che ritengono affidabili e consolidano assieme l’idea che informarsi sia utile alle loro vite. Essendo la politica un tema molto polarizzante, Toff indica in ambiti più neutri – sport, cultura o cibo – la pietra angolare su cui i media potrebbero tentare di ricreare queste comunità. Dal punto di vista delle politiche, lo studioso ricorda che le persone che tendono a evitare le notizie lo fanno per un generale senso di spaesamento, che deriva dalla sensazione di «non capirci abbastanza». Per contrastare questa sensazione, secondo Toff, gioca un ruolo chiave il servizio pubblico (oggetto della quinta edizione di Illiberalia).

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