Questo articolo sta con Sergio Mattarella. No, non perché santocielolacostituzione. No, neanche perché abbiamoungrandepresidente. Questo articolo spiegherà perché sta con Sergio Mattarella ma lo farà dopo divagazioni persino più lunghe del solito, prendendola persino più alla lontana del solito, con persino più subordinate del solito, e insomma questo articolo ha ragione di credere che, se non vi dicesse subito con chi si schiera tra le due curve del giorno, voi mica lo capireste, stimabile pubblico (ho corretto, prima c’era un’espressione di Freak Antoni).
Era un giorno della campagna elettorale americana, non ricordo quale e in quale numero d’avanspettacolo si fosse prodotto quel giorno Elon Musk, quando un amico mi ha suggerito che la mia solita analisi – venire appoggiati dalla gente famosa non sposta un voto, mica voti quel che ti dicono gli attori che ti piacciono – fosse incompleta: forse non spostava voti Taylor Swift, ma li spostavano i Musk del caso.
È stato quel giorno che ho sentenziato privatamente ciò che ripeto oggi pubblicamente: Musk è come Renzi. Interessa solo ai detrattori. Non c’è giorno che apra un social senza trovarci qualcuno che ritiene Renzi causa di tutti i mali d’Italia, quelli che lo odiano ne sono ossessionati, ma non c’è una curva opposta con cui prendersela: non ho mai visto nessun tifoso di Renzi (naturalmente sto parlando di social minori con algoritmi incompetenti: su TikTok a nessuno importa niente di Renzi neanche per insultarlo, e se a qualcuno importasse l’algoritmo di genio non mostrerebbe quel qualcuno a me).
Elon Musk si è comprato un social che interessa solo ai giornalisti, produce pannelli solari che interessano solo a quelli che non voterebbero Trump neanche sotto minaccia armata, macchine elettriche che i ceti impoveriti non si possono permettere: Elon Musk interessa solo a un elettorato che non è spostabile verso Trump.
Elon Musk è come Maria De Filippi: poiché abbiamo fatto analisi fallaci della società per decenni, li incolpiamo d’aver creato un pubblico sul quale hanno solo acceso un riflettore. Li accusiamo d’essere creatori di mostri invece d’accusare il nostro oculista di non averci avvertito che eravamo troppo miopi per vedere i mostri già esistenti.
Prima di arrivare a Mattarella, dobbiamo parlare del 1989, quando Lorenzo Cherubini, che allora nessuno chiamava così, va a Sanremo a fare quel che fa a ventidue anni – cosa devi fare a ventidue anni? Il deficiente – e Repubblica scomoda due dei miei intellettuali preferiti per dirgliene quante neanche trentacinque anni dopo a Musk.
«Sarà vero che Jovanotti tiene lontani i giovani dalla droga, e che la droga è terribile. Però anche la scemenza, la demenza, anzi la dementia praecox di Jovanotti non scherza». Lo scrive Beniamino Placido, che è morto nel 2010, quindi un po’ del Jovanotti venerato maestro ha fatto in tempo a vederlo. Poche righe dopo, in quello stesso articolo, dà del «jovanotto», un ovvio insulto, a Gigi Marzullo, che in questi giorni viene celebrato come venerato maestro anche lui, perché “Sottovoce” fa trent’anni. Ci sarebbe da fare un discorso sull’animamiismo, intesa come cornice per cui inizi a invitare uno per prenderlo per il culo e poi ti ritrovi a legittimarlo, come Fabio Fazio fa da ventisette anni – ma oggi non ho tempo, magari un’altra volta.
Fatto sta che – sono certa che lo sapesse bene Beniamino Placido, il miglior critico televisivo mai passato da questo derelitto paese – «venerato maestro» non è una selezione: è un traguardo temporale. Se vivi abbastanza a lungo, ti trovi abbastanza per forza a non avere più le caratteristiche del giovane imbecille.
Sempre 1989, questa volta Natalia Aspesi: «La piccola setta di giovani che adora Jovanotti trova in lui la fine della paura: non c’è bisogno di leggere, di pensare al futuro, di darsi da fare, non c’è bisogno di saper cantare, ballare, per uscire dall’infanzia […] Basta saltare sconnessamente, limitare il proprio linguaggio a casino, sballo, figo, maranza, cuccare, per dimenticare le troppe cose che non si sanno, perché la vita sia una festa, perché ci sia movimento». Insomma: una media campagna elettorale vincente di questo secolo (sto ovviamente esagerando, la somiglianza c’è ma il 1989 era Bloombsbury in confronto: rispetto alla semplificazione lessicale, all’angloitaliano senza capire nessuna delle due lingue, ai meme e alle gif, rispetto alla comunicazione di oggi, «sballo» e «cuccare» sono la “Critica della ragion pura”).
Quindi, penseranno i lettori abituati alle semplificazioni e alle tifoserie, tu che hai nel frattempo vissuto abbastanza a lungo da sapere che Jovanotti non è certo il punto di riferimento degli imbecilli, né tantomeno imbecille in proprio, ci stai dicendo che Aspesi e Placido, come gli intellettuali di “Ferie d’agosto”, non ci stavano capendo un cazzo. Macché.
Mi sta simpatico Jovanotti, ma io sto con gli allora sessantenni Aspesi e Placido. Io sto col Novecento, quel secolo prezioso in cui gli adulti potevano dire che i passatempi dei giovani gli facevano schifo, in cui gli intellettuali non smaniavano per sembrare aggiornati ai consumi degli adolescenti, in cui non credevamo che i tormentoni dovessero essere gli stessi per tutti, i consumi culturali gli stessi per tutti, gli intrattenimenti gli stessi per tutti. In cui semmai erano i piccoli a doversi rendere presentabili presso i grandi.
Mi sta simpatico anche Musk, sebbene non lo conosca (Musk è un pericolo per la democraziaaaa, come puoi dire che è simpaticoooo), ma io sto con Sergio Mattarella. E no, non perché mi sembri grave che Elon Musk abbia scritto su un social «These judges must go», frase che si può interpretare con cento chiavi diverse.
Possiamo credere che Elon sia il troll in chief e gli piaccia gettare sassi e restare a guardare l’effetto che fa; che Elon sia un americano ignorante nella media nazionale e pensi di dire al pubblico di destra «non rieleggeteli» perché non sa che i giudici in Italia non ricoprono cariche elettive; che Elon ogni tanto apra un social e ci scriva dentro cose a caso come tutti noi (i casi meno gravi di noi: quelli gravi sono quelli che dentro i social pensano di scrivere cose rilevanti per le sorti del mondo), con la differenza che di quel social è proprietario; che Elon si diverta tantissimo (siamo sempre al fascicolo troll in chief) a vedere la sinistra che sbrocca e annuncia il proprio abbandono d’una piattaforma gratuita i cui server sono appunto pagati da Elon: quando Piero Pelù, Sandro Ruotolo e Nicola Piovani annunciano che abbandonano Twitter, sai come piange Elon.
Io sto con Sergio Mattarella non perché ritenessi doveroso rispondere a Elon Musk che a casa nostra ci badiamo noi e lui non s’impicci, no. Anzi, semmai quello è un cedimento allo spirito del tempo, a questo secolo ubriaco in cui tutti devono rispondere a tutti, tutti devono smentire tutto, tutti devono precisare rettificare contrappuntare tutto.
Io sto con Sergio Mattarella perché, in un secolo in cui i cinquantenni si mettono il cappellino con la visiera all’indietro per sembrare il Jovanotti ventiduenne, in cui i sessantenni si esprimono con gerghi giovanilisti illudendosi che così i figli mai gli diranno «boomer», in cui i settantenni rincorrono i figli quarantenni che dovranno mantenere a vita e di cui bramano l’approvazione, in un secolo così sbandato e fragile, Sergio Mattarella, nel suo comunicato, non finge neanche per un secondo di non avere ottantatré anni.
Per dire che Elon Musk non solo deve stare zitto perché i giudici italiani non sono fatti suoi, ma soprattutto perché Trump ha appena annunciato che gli affiderà una specie di ministero per la semplificazione, Mattarella (il suo portavoce, ma comunque) scrive: «Chiunque, particolarmente se, come annunziato, in procinto di assumere un importante ruolo di governo». Come annunziato. Come si fa a non stare dalla parte di chi, invece di dargli del maranza per sentirsi moderno, parla di Musk con un gergo da circolare ministeriale, da articolo costituzionale scritto un’ottantina d’anni fa, da verbale dei carabinieri in una provincia remota. Come si fa a non stare coi classici, l’unica certezza cui poggiarsi in attesa che passino le mode.