Mai dire GerusalemmeLa falsa verità di Stato, imposta per via giudiziaria, sulla capitale di Israele

Il Tribunale di Roma ha condannato la Rai a trasmettere una rettifica per un episodio de L’Eredità in cui si parlava della capitale dello Stato ebraico. La motivazione starebbe nelle risoluzioni dell’Onu, che però non sono fonte di diritto, e anzi sono dettate dall’odio e dal pregiudizio

AP/Lapresse

Se in una prossima puntata de L’Eredità a un concorrente fosse chiesta la capitale di Taiwan, questi dovrebbe presumere che la risposta giusta non sia quella vera, cioè Taipei, bensì quella onusianamente corretta, cioè Pechino, visto che, come è noto, Taiwan per le Nazioni Unite come Stato non esiste ed è solo una provincia ribelle della Repubblica Popolare Cinese?

L’ipotetico concorrente del popolare telequiz potrebbe essere persuaso a questa furbizia da una recente sentenza del Tribunale di Roma, che ha condannato la Rai a trasmettere «una rettifica, espressamente riferita a quanto accaduto nel corso delle puntate del 21 maggio 2020 e del 5 giugno 2020, dando atto della scorrettezza delle informazioni ivi fornite e contenente la dichiarazione che “Gerusalemme non è la capitale di Israele e non è riconosciuta come tale dal diritto internazionale”».

Cos’era successo, ormai più di quattro anni fa? Era successo che alla domanda «Quale è la capitale di Israele?» la risposta «Tel Aviv» data dal concorrente fosse stata considerata sbagliata; la risposta giusta – venne detto – sarebbe stata «Gerusalemme». Dopo le prevedibili proteste, il conduttore della trasmissione (ai tempi: Flavio Insinna), in una successiva puntata diede atto che sulla questione era in corso da anni una controversia «con interpretazioni diverse» e si rammaricò di avere involontariamente evocato «una disputa così delicata».

Questo però non bastò al ricorrente Mohammad Hannoun, presidente di due organizzazioni – L’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese e L’Associazione Palestinesi in Italia – che pretese, accanto a un risarcimento danni che il Tribunale non gli ha accordato, una pronuncia, alla fine ottenuta, che obbligasse la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo a ristabilire la verità dei fatti sulla questione di Gerusalemme capitale.

Del resto, il presidente Hannoun ha una particolare predilezione per la correttezza dell’informazione quando di mezzo c’è lo Stato ebraico, come ha dimostrato poche settimane fa durante un corteo pro Palestina a Milano, invitando i manifestanti a «fare un applauso ai ragazzi di Amsterdam» protagonisti della caccia all’ebreo contro i tifosi del Maccabi Tel Aviv e guadagnandosi così un foglio di via dal capoluogo lombardo per istigazione all’odio e alla violenza.

Di Mohammad Hannoun, Linkiesta ha ripetutamente raccontato fama e gesta, non esattamente commendevoli, visto che è stato inserito dal Dipartimento del Tesoro americano nella lista Specially Designated Nationals (Sdn), un elenco di individui ed entità con cui è vietato fare affari ed è pesantemente sospettato di essere implicato nel sistema di finanziamento occulto per Hamas, come ha raccontato Massimiliano Coccia, al punto che Poste e Paypal ne hanno bloccato i conti in teoria utilizzati per transazioni umanitarie. Eppure nel nostro Paese si fa ben poco per fermarlo e lo si accredita di una speciale rappresentanza politica.

A rendere particolarmente sensibile questa vicenda è anche la giudice che ha dato ragione ad Hannoun, la presidente di Magistratura Democratica Silvia Albano, finita nel mirino della maggioranza e di svariati malintenzionati – al punto da essere messa sotto vigilanza – per non avere convalidato il trattenimento di alcuni migranti in Albania.

Poiché per quel che conta – per nessuno, evidentemente, tranne che per me – non vorrei apparire corrivo con la character assassination contro i giudici che non accettano di avallare quel mostro giuridico multistrato congegnato dal Governo e utile solo a precostituire l’alibi per il fallimento dell’operazione rimpatri, ci tengo a dire che trovo tanto corretta e coraggiosa la scelta di non considerare “sicuri” dei Paesi che non lo sono affatto, solo perché lo si scrive in un decreto legge, quanto assurda e conformistica la scelta di considerare Gerusalemme una capitale inesistente unicamente in base all’odio e al pregiudizio che le Nazioni Unite, da decenni sobillate dalla grande maggioranza delle non democrazie nemiche di Israele, distillano nelle loro risoluzioni, come quella del 1975 che affermò testualmente: «Il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale».

La giudice Albano scrive infatti nella sentenza che è «pacifico… che l’informazione secondo cui Gerusalemme sarebbe la capitale di Israele sia oggettivamente falsa» e lo fa unicamente in base a una serie di risoluzioni dell’Assemblea e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che, nel primo caso, non sono da nessun punto di vista una fonte del diritto, e nel secondo, si reputa secondo la dottrina prevalente possano assumere un rango, per così dire, normativo non in caso di controversie tra Stati, ma solo in base Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, per la salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale, attraverso azioni che possono anche implicare l’uso della forza.

Né l’Assemblea Generale, né il Consiglio di sicurezza, né tantomeno la Corte Internazionale di Giustizia – che peraltro sul tema ha solo espresso pareri, non sentenze – stabiliscono quali sono le capitali degli stati membri delle Nazioni Unite. E non le stabiliscono neppure le leggi nazionali degli altri stati, che peraltro nel caso italiano neppure ci sono, tanto che la giudice Albano come sola fonte del diritto interno cita una faq sul sito del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, che così recita: «Lo Stato di Israele ha stabilito che Gerusalemme è la propria capitale. La decisione non è riconosciuta dall’Italia che, come la maggior parte dei Paesi, ha la propria Ambasciata in Tel Aviv».

Il che è corretto e non significa affatto che Gerusalemme non è la capitale di Israele, ma che alcuni Stati non la riconoscono, e altri non si pronunciano preferendo prudentemente mantenere l’Ambasciata a Tel Aviv, come hanno fatto gli Stati Uniti fino al 2017, malgrado avessero approvato il Jerusalem Embassy Act fin dal 1995 (alla Casa Bianca c’era Bill Clinton).

Dunque non è vero che Gerusalemme non è la capitale di Israele, esattamente come non è vero che Taipei non è la capitale di Taiwan, anche se la gran parte degli Stati, tra cui l’Italia, non riconoscono formalmente Taiwan come Stato sovrano – proprio perché “espulso” dalle Nazioni Unite – pur continuando a intrattenere con esso relazioni politiche, economiche e pure militari.

Ovviamente la questione di Gerusalemme è delicata perché il suo status è rimasto una questione irrisolta dal momento stesso in cui fu posta dalle Nazioni Unite, quando nel 1947, ripartendo la Palestina tra uno Stato ebraico e uno arabo, pensò risolvere il problema con l’internazionalizzazione della città: idea che non vide mai la luce perché dopo la proclamazione di Israele gli Stati arabi dichiararono subito guerra allo Stato ebraico e alla fine della guerra i giordani si trovarono a controllare Gerusalemme Est e gli israeliani la parte occidentale della città.

Gerusalemme è capitale di Israele dal 1950 e a stabilirlo fu il Parlamento del Paese il cui premier era David Ben Gurion, non Benjamin Netanyahu. La legge israeliana del 1980 che dichiarò Gerusalemme «completa e unita» capitale di Israele e che fu interpretata come il prodromo di una prossima annessione suscitò le reazioni più aspre, compresa la famosa risoluzione 487 del 1980 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Anche per Israele però la questione non si chiuse nel 1980, infatti dagli accordi di Oslo del 1993 fino al governo Barak il futuro status di Gerusalemme tornò in discussione nei negoziati di pace, sempre rifiutati da parte palestinese.

È molto saggio sostenere che lo status di Gerusalemme e la ripartizione territoriale della città – essendo ormai realisticamente escluso lo status internazionale immaginato nel 1947 – debba essere un argomento negoziale, nel momento in cui sarà possibile un negoziato di pace, cioè se e quando gli interlocutori palestinesi non saranno Hamas e Hezbollah, suscettibili, come è evidente, solo di interlocuzioni militari e anti-terroristiche.

È però assai poco saggio azzeccagarbugliare con le risoluzioni Onu, sperando di trovare un capo di diritto e di giustizia nella intricatissima matassa della guerra permanente allo Stato ebraico ed è decisamente sinistro imporre per via di giudiziaria una verità di Stato su Gerusalemme, che è farlocca come le verità di Stato imposte per via legislativa sui “Paesi sicuri”.

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