La strada fra la Via Emilia e il West è abbastanza lunga, ma è soprattutto popolata da tanti piccoli villaggi. Il voto in Liguria ha messo ulteriormente nero su bianco, se mai ce ne fosse stato bisogno, la profonda differenza nel consenso che i partiti politici ottengono nei centri urbani e nelle aree rurali, un elemento che, come previsto, ha caratterizzato le elezioni americane, ma finirà inevitabilmente per condizionare anche gli appuntamenti con le regionali in Umbria ed Emilia Romagna del 17 e 18 novembre.
Negli Stati Uniti ancora non si è finito di contare i voti provenienti dai grossi centri urbani e, se si fosse votato solo nelle cinque città più popolate del paese (New York, Los Angeles, Chicago, Houston e Phoenix), Kamala Harris avrebbe vinto con oltre il sessanta per cento dei voti. Senza l’apporto delle metropoli, e senza nemmeno contare le numerose altre ampiamente schierate sul versante democratico come Philadelphia, Boston, Seattle o San Francisco, Harris avrebbe probabilmente uno svantaggio doppio nei confronti di Trump.
Se il centro-destra riuscirà a conquistare la roccaforte rossa emiliana, o viceversa il campo largo sarà in grado di strappare la seconda regione alla maggioranza di governo nel corso del 2024 dopo la Sardegna, dipenderà anche da come si comporteranno gli elettori a seconda del luogo di residenza: in Liguria, il nuovo governatore Marco Bucci deve i novemila voti di vantaggio soprattutto al voto arrivato dai comuni non capoluogo, dove ha staccato il rivale Andrea Orlando di circa undici punti percentuali. Calcolando il solo voto di Genova, Savona, La Spezia e Imperia (senza contare Sanremo, che pure è più popolosa di quest’ultima), l’ex ministro avrebbe lasciato indietro il centrodestra.
Le ragioni di questa scollatura sono continuo oggetto di dibattito, diventa però necessario capire in che modo influisce numericamente su decisioni che vengono prese anche e soprattutto sulla base di altre variabili: in Liguria hanno influito i recenti scandali della giunta Toti da una parte e la litigiosità del campo largo dall’altra; in Umbria nel 2019 un’inchiesta analoga costrinse alle dimissioni la governatrice Marini, condannata in primo grado a due anni per la gestione dei concorsi sanitari, mentre in Emilia Romagna quattro anni fa fu decisiva la mobilitazione massiccia a sostegno di Bonaccini per evitare il successo della candidata leghista Borgonzoni.
La prima domanda è: Quanto pesa il voto rurale? In Liguria conta meno che in Emilia Romagna e in Umbria: i capoluoghi in Liguria costituiscono il quarantasette per cento degli aventi diritto, mentre nelle altre due regioni sono rispettivamente il trentacinque e il trenta per cento. Questo significa che gli abitanti dei piccoli comuni saranno in larghissima maggioranza delle due regioni chiamate al voto a novembre.
Un altro elemento da tenere in considerazione è anche il fatto che l’elettorato attivo delle zone rurali è in storicamente in crescita: in Liguria è passato dal 48.8 per cento del 2000 al 52.5 per cento attuale, in Emilia Romagna ventiquattro anni fa era al 62.85 per cento e ora dovrebbe sfiorare il 65 per cento, solo in Umbria risulta una leggera controtendenza a favore di Perugia e Terni. La ragione di questo fenomeno è la migrazione interna (nonostante un bilancio generale negativo) verso i piccoli comuni, inclusi quelli limitrofi alle grosse città, e l’immigrazione dall’estero verso i capoluoghi, elemento che ora viene gradualmente controbilanciato dalla progressiva acquisizione della cittadinanza italiana da parte dei figli delle famiglie che sono arrivate in Italia all’inizio del secolo.
Il consenso a favore del centro-sinistra ha caratteristiche diverse a seconda della regione: in Liguria si è sempre manifestato con maggiore frequenza nei centri urbani, mentre nei piccoli comuni non è mai andato oltre il cinquanta per cento; in Emilia Romagna il dato è sostanzialmente omogeneo fino al voto del 2014, mentre nel 2020 il voto nei capoluoghi vedeva Bonaccini in vantaggio di diciassette punti percentuali, mentre nei piccoli centri il vantaggio si riduceva al due per cento.
In Umbria, addirittura, la tendenza storica era inversa, con un centro-sinistra più forte nei piccoli comuni, mentre nel 2019, a dispetto della sconfitta pesantissima del candidato Bianconi, il consenso era leggermente superiore a Perugia e Terni (circa il tre per cento in più). L’ingresso in scena del M5s, a partire dal 2010 (in Emilia Romagna) e 2015 (in Liguria e Umbria) ha visto una iniziale prevalenza del voto nei capoluoghi, andata poi scemando verso un sostanziale equilibrio ora che il partito di Giuseppe Conte ha considerevolmente ridotto le proprie performance alle tornate locali.
Cambia anche il livello di astensione: quando nel biennio 2014-2015 la partecipazione è calata sensibilmente rispetto agli anni precedenti, la partecipazione è diminuita in maniera sostanzialmente omogenea, tuttavia le recenti elezioni liguri hanno indicato una forte disaffezione nei piccoli comuni, dove l’astensione è passata dal 49.5 per cento al cinquantotto per cento (dal 48.6 per cento al 52.2 per cento nei capoluoghi), elemento che invece non era emerso alle Europee di pochi mesi fa dove, addirittura, la percentuale di astenuti era stata maggiore nelle città liguri. L’impressione è che questo fenomeno sia stato particolarmente deleterio per il M5s, che ha perso quasi sei punti percentuali lontano delle grandi città.
I sondaggi, al momento, indicano che l’Emilia Romagna dovrebbe confermarsi per il centro-sinistra, questa volta sotto la guida del sindaco di Ravenna Michele De Pascale, mentre in Umbria la sfida fra l’attuale governatrice leghista Donatella Tesei e la candidata del campo largo, nonchè sindaca di Assisi, Stefania Proietti, si preannuncia decisamente più combattuta. In Emilia Romagna, alle ultime europee, l’astensione fu del quarantatré per cento sia nei capoluoghi (dove il centro-sinistra aveva dato diciassette punti di margine ai partiti di governo), che nelle aree rurali (dove il vantaggio si riduceva al tre per cento) ed è immaginabile che un aumento dell’astensione nei piccoli comuni non influisca particolarmente sul risultato finale.
Diverso è il discorso dell’Umbria, dove a giugno il centro-destra lasciò dietro di quattro punti l’opposizione (incluso il M5S), mentre a Terni e Perugia la sconfitta arrivò in egual misura. Oltre due elettori umbri su tre abitano fuori dai capoluoghi: se quel quarantadue per cento di astenuti rurali dovesse aumentare nella stessa misura vista in Liguria, e quindi a discapito del M5s a sostegno di Proietti, le speranze di ribaltone si ridurranno considerevolmente, a maggior ragione se non dovesse arrivare nessuna mobilitazione da Terni e Perugia.
Il dato assoluto indica che il centro-sinistra, dal 2000 al 2019/2020, nelle tre regioni ha perso quasi metà del proprio elettorato, con l’eccezione dell’Emilia Romagna proprio a causa della grande mobilitazione del gennaio di quattro anni fa: molti di questi consensi si sono largamente trasformati in astensionismo e solo in misura minore in voti per il Movimento 5 stelle. Il centro-destra ha subito questa involuzione solo nei capoluoghi (addirittura invertendo la tendenza a Perugia e Terni), mentre nei piccoli comuni ha limitato l’emorragia di consensi (come in Liguria) oppure ha aumentato il proprio bacino elettorale.
Il voto ligure ha testimoniato un leggero cambio di tendenza, che tuttavia non si è rivelato decisivo per far cambiare colore alla regione. Se questo dovesse verificarsi anche in Emilia Romagna, a De Pascale non sarà necessaria né la mobilitazione nel 2020, né il sostegno del M5s, con un vantaggio che potrebbe arrivare fino a centocinquantamila voti. Allo stesso modo, in Umbria rischierebbe di verificarsi lo stesso scenario ligure, con una partita decisamente più aperta rispetto a quella del 2019 (quattordici punti di differenza nei capoluoghi e ventidue nei piccoli comuni), ma favorevole alla coalizione che governa il paese e con un Movimento 5 stelle più che dimezzato rispetto ai trentamila voti di cinque anni fa.