Non solo quinoa. C’è un’altra pianta originaria delle Americhe che sta conquistando il favore di dietologi e consumatori, soprattutto di quelli che devono confrontarsi con la lunga lista di divieti legati alla presenza di glutine, dal frumento al farro, passando per spelta, segale, orzo e derivati. L’amaranto, proprio come la quinoa, è uno pseudocereale, in cerca di un nuovo futuro dopo essere stato il “grano delle Ande” e per millenni uno dei nutrimenti di base dei popoli andini.
La pianta, nativa del Messico, dove è tuttora alla base di un dessert molto popolare, noto come alegria dulce, era intensamente coltivata dalle civiltà precolombiane, in particolare dagli Aztechi, e ha conosciuto nella sua lunga storia di grandi successi e cadute in disgrazia. Se ne ritrovano tracce in Europa, dove come molte altre piante arrivate dal Nuovo Mondo, e grazie ai suoi fiori fiammeggianti, fu inizialmente considerata ornamentale, in Africa, dove dall’Ottocento venne coltivato come ortaggio, e in Asia, dove veniva considerato un cereale.
Della stessa famiglia botanica delle bietole, dei cardi e degli spinaci, ne esistono almeno settanta varietà, sparse in tutto il mondo, ma quelle che producono i semi migliori sono principalmente l’Amaranthus caudatus, il cruentus e l’hypochondriacus. In Italia, in una versione meno fiammeggiante, è presente come pianta spontanea e infestante ed è nota con una serie di nomi dialettali che vanno da bledon, bledon salvadi in Friuli, a biei, biun, cua rouss in Piemonte, a trispita in Sicilia. Ma, invece di eliminarla, si sta iniziando a coltivarla, grazie all’elevata redditività rispetto alle colture tradizionali e all’ottimo adattamento a periodi di siccità prolungata.
La sua carta vincente è la versatilità: dalla foglia al seme, l’intera pianta è commestibile. Mentre le foglie di amaranto possono essere saltate in padella o bollite, il seme può essere tostato e/o cotto. È una proteina completa, con tutti e nove gli aminoacidi essenziali, ed è anche una buona fonte di vitamine e antiossidanti. Rispetto ai cereali, contiene il doppio di lisina, di cui in genere questi sono carenti. In più, ha un elevato contenuto di fibre ed essendo privo di glutine è indicato per chi è affetto da celiachia, o ha problemi intestinali, ma anche per i bambini nel periodo dello svezzamento.
In Centro e Sud America l’amaranto era usato intensamente e altrettanto apprezzato dalle popolazioni native, dagli Aztechi, agli Inca, ai Maya. I semi erano conosciuti per le alte qualità nutrizionali ed energetiche, ma altresì importante era il suo uso nei rituali religiosi. Nei riti aztechi l’amaranto veniva impastato con farina di mais e utilizzato per forgiare delle figure antropomorfe che richiamavano gli idoli celebrati, e che al termine della cerimonia venivano mangiate.
Ma fu proprio questa commistione di sacro e profano a essere fatale all’amaranto, perché con l’arrivo dei conquistadores agli inizi del sedicesimo secolo venne formalmente bandito. L’obiettivo era sia quello di imporre la sostituzione delle coltivazioni autoctone con le sementi europee portate dai colonizzatori, sia quello di colpire la cultura religiosa originale aprendo la via alla conversione cattolica.
Coltivarlo divenne quindi un simbolo di resistenza e i contadini cercavano di nasconderlo disseminandolo nei campi come un’erbaccia. Ancora nel secolo scorso, durante la guerra civile in Guatemala tra il 1960 e il 1996, l’amaranto è diventato vittima delle forze governative che bruciavano i villaggi e le colture dei contadini di origine maya. Che da parte loro cercavano di preservane i semi chiudendoli in barattoli di vetro e seppellendoli in profondità.
La sua rinascita è iniziata nel 1975, grazie alla pubblicazione di un libro di botanica a cura della National Academy of Sciences statunitense in cui venivano descritte le caratteristiche nutritive di piante da tempo dimenticate. E da questo punto la coltivazione è ripresa alla grande, estendendosi dall’America Centrale fino alla California e all’Arizona. Fino a diventare la pianta che potrebbe nutrire il mondo in tempi di crisi climatica, come sostiene Beata Tsosie-Pena, esperta di pratiche agricole ancestrali e coordinatrice del Tewa Women United, organizzazione fondata nel New Mexico per mantenere vivi gli antichi saperi.
L’amaranto, nelle sue tante varietà, infatti, è resistente a parassiti, alle malattie, alle temperature elevate e alla siccità e non richiede cure particolari. In cambio, la produttività è molto elevata, una singola pianta può produrre fino a duecentomila semi, per un peso complessivo che può arrivare a cento grammi di semi. E test di coltivazione nella Pianura Padana mostrano la possibilità di effettuare fino a due raccolti, uno estivo e uno autunnale, dalla stessa pianta.
L’unico neo è la raccolta dei semi, perché ogni infiorescenza matura in tempi diversi e quindi richiede più fasi di raccolta distinte che dovrebbero essere eseguite a mano. Per questo le varietà selezionate per la coltivazione su larga scala, come la Golden Giant, tendono a generare una singola infiorescenza. Per chi ama l’autoproduzione è l’ideale, perché cresce facilmente anche in giardino.
Ma cosa si può fare con l’amaranto? Oltre ai semi, che in una dieta varia ed equilibrata possono sostituire riso, pasta, avena e altri grani visto che contengono quantità importanti di amido e fibre, anche i germogli e le foglie, come si diceva, sono commestibili. E c’è un patrimonio di ricette esotiche a cui attingere. In Etiopia con i semi si fanno un pane non lievitato chiamato kita e una bevanda alcolica chiamata borde. In India si mangiano con il riso e si trovano in un dessert, il laddoos. In Messico la farina di semi di amaranto si utilizza per le tlayudas, tortillas aperte da farcire, e i semi scoppiati, come i popcorn, si mescolano al miele o allo sciroppo di agave. Le foglie sono perfette per comporre delle insalate o anche dei sughi vegetali.
Poiché i semi una volta bolliti formano una massa gelatinosa, tipo la tapioca, è preferibile cucinarli insieme a cereali come orzo o riso, o con delle verdure per preparare zuppe, sformati e dolci.