Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. O in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.
Un racconto sulle mostre con tutto quello che non è mai in mostra. Potrebbe riassumersi così il progetto fotografico di Nicolas Krief intitolato semplicemente “Musée”. Un lavoro certosino, fatto di lunghissime attese e appostamenti con l’obiettivo di svelare al pubblico non tanto l’esposizione, quanto ciò che accade prima e dopo. Sull’onda lunga di certi adagi, forse un po’ banali, secondo cui l’importante non è tanto la meta quanto il viaggio, Nicolas fa esattamente lo stesso. Pone l’accento sulle fasi dell’allestimento, sulla scelta della parete dove posizionare i vari lavori, sulla cura con cui vengono aperti i pesanti imballaggi che custodiscono ritratti, sculture e installazioni di ogni epoca.
Il fotografo parigino, che da anni collabora con numerose istituzioni culturali transalpine, ha lavorato per oltre dodici anni a questo progetto dominato da decine e decine di accrochages. Quest’anno ne è nato un libro edito da Gallimard, che nei giorni della fiera internazionale di Paris Photo, a novembre, è diventato anche una mostra fotografica allestita alla Galerie Gallimard, al 30 di Rue de l’Université, nel cuore vibrante di Saint-Germain-Des-Prés, sulla Rive Gauche.
«Ho iniziato questo lavoro nel 2010», ci racconta Nicolas, fotografo autodidatta folgorato all’età di vent’anni da “Le Mitologie” di Roland Barthes. «Ad agosto, il quotidiano Le Monde mi ha commissionato il ritratto di uno dei curatori della retrospettiva di Monet organizzata al Grand Palais. La RMN (Réunion des Musées nationaux) mi ha quindi dato carta bianca per seguire i lavori e la messa in scena. Ho subito accettato la proposta. Da qui ne sono arrivate altre, prima al Musée du Luxembourg, poi al Musée d’Orsay, fino alla Fondazione Pinault alla Bourse du Commerce. È stato come un viaggio interiore e personale, ma all’interno dei musei. Ammirando queste installazioni ho scoperto che era in gioco il nostro rapporto con l’arte, con il sacro, una sacralità ancor oggi così significativa nel nostro mondo secolarizzato».
Ogni singola foto del portfolio è un’istantanea. Non c’è nessuna messa in scena, nessuna illuminazione supplementare, nessun materiale di posa. Tutto è reale ed estemporaneo. A colpire, non è solo la qualità del progetto o l’originalità dell’idea che vi sta dietro, ma il continuo ondeggiare tra sacro e profano, tra opere sublimi e pura tecnica manuale. Da un lato c’è la cura quasi maniacale con cui i capolavori vengono “manipolati” da curatori, esperti, restauratori, commissari, professori di storia dell’arte e scenografi. Quelli che Edoardo Bennato chiamerebbe “dotti, medici e sapienti”. Dall’altro c’è il lavoro quotidiano di installatori, artigiani, vigili del fuoco, corniciai, falegnami e operai che trasportano con cura perle come il dipinto romantico “Dante et Virgile en Enfer” di William-Adolphe Bouguereau o l’impressionista “Rue de Paris, temps pluie” di Gustave Caillebotte, rivelando spesso più professionalità tecniche che competenze specifiche in storia dell’arte. Tutti questi lavori, ammirati da orde di appassionati nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo, nelle loro mani diventano materiali di lavoro più prosaici che sublimi.
«Questo reportage è il frutto di un processo lungo, per lo più immersivo», spiega Krief, che ha formato la sua cultura fotografica all’età di tredici anni andando a caccia di vecchi numeri della rivista cult Photo Magazine nei mercatini della Ville Lumière e che ha iniziato a scattare prendendo in prestito la Asahi Pentax del padre. «Mi esercito quasi tutti i giorni come reporter di strada, ma all’interno delle sale di un museo cerco di scomparire, di dileguarmi nel nulla. Mi aggiro silenzioso tra le varie sale, aspetto, a volte per molto, moltissimo tempo, e poi decido di agire immortalando le scene che mi si pongono davanti». Moltissime di queste sono cariche di umorismo. Come quella in cui un seducente volto femminile del Diciannovesimo secolo emerge da un imponente imballaggio e sembra quasi chiederci aiuto, o come quello dove alcune mani coperte da guanti in silicone sostengono una scultura greca riportando alla mente pensieri più legati alla carne che all’equilibrio delle forme. O, ancora, come il drammatico Cristo del quadro Ecce Homo, realizzato da Pierre Mignard nel 1690 che pare risorgere ancora una volta, stavolta però sbucando fuori dalla carta che lo ha avvolto durante il suo complicatissimo trasporto.
«La fotografia contribuisce a migliorare la comprensione della realtà», ci racconta con passione Nicolas Krief. «Il grande street-photographer americano Garry Winogrand amava ripetere fino alla nausea che fotografare una cosa cambia per sempre quella cosa. Ecco, io scatto essenzialmente per scoprire come appare quell’oggetto quando viene ritratto». Quasi una sorta di psicanalisi, dove al posto di un lettino c’è un teleobiettivo.
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